Categoria: Scritti in lingua
Pubblicato: Sabato, 22 Aprile 2017

Conferenza del 21 aprile 2017

 LA LIBERAZIONE

Il 25 aprile ( tra qualche giorno ) cade l’anniversario della Liberazione. Una data molto importante per la nostra storia, però, spesso, molti ad essa  non danno  l’importanza che merita, come se per  tanti questa data fosse solo un giorno di festa qualunque. Questo è scarso senso di civismo, però ciò non è colpa loro, la colpa è di chi doveva fare gli italiani e non li ha fatti. La colpa è che molte generazioni non si sono rese conto di quanto ci è costata la libertà. Molte generazioni non hanno studiato affatto la storia del Secondo Conflitto Mondiale perché a scuola non si riusciva a completare il programma di storia, ora per una ragione ora per un’altra.

Per me, questa è la più bella giornata della nostra vita perché 71 anni fa, come se fosse oggi, ci liberammo dall’occupazione tedesca e dal fascismo, che avevano condotto al disastro il nostro paese e non solo; basti ricordare che a causa di quella guerra ci furono nel mondo 50 milioni di morti, senza contare  quanti morirono dopo per le conseguenze di essa. E non parliamo delle sofferenze degli orfani, che pure dovettero sopravvivere ai loro padri.

La festa venne istituita prima con D. L.vo n° 185 del 22 aprile 1946 dal Capo Provvisorio A. De Gasperi per la seguente motivazione: “A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano il 25 aprile 1946 è dichiarato festa nazionale”. In seguito la Legge n° 260 del 27/5/1949 istituirà la festa nazionale definitivamente.

È opportuno ricordare alcuni fatti:  


Come scoppiò la 2° Guerra Mondiale?

La politica espansionista della Germania nazista, che aveva annesso la Renania nel 1936, l’Austria nel 1938, la Cecoslovacchia nel 1939 e quella dell’Italia che nel 1936 aveva conquistato l’Etiopia,  e nel 1939 l’Albania, sono i segni premonitori del secondo conflitto mondiale, che scoppia nel settembre 1939, quando l’esercito di Hitler occupa la Polonia.

In seguito a ciò Francia ed Inghilterra dichiarano guerra alla Germania.

L’Italia resta a guardare alla finestra prima, poi, con un pizzico di furbizia forse, vedendo che le cose andavano bene per Hitler, il 10 giugno 1940 entra in guerra accanto alla Germania, pensando di “ andarsi a sedere al tavolo delle trattative “ da paese vincitore.

Mussolini, pregusta già di prendere un suo bocconcino al banchetto di spartizione. Nel settembre dello stesso anno anche il Giappone fa lo stesso, avendo in mente di riconquistare alcune  isole importanti del Pacifico, tra cui le Haway.

Ma come si dice: Chi troppo vuole nulla stringe e non fare mai conti senza l’oste!

I politici, per la maggioranza, non hanno il senso della misura, specie se sono mezze tacche: poiché tali classifico io i dittatori.

Il sogno di Hitler non ha limiti e nel 1941, violando il trattato di non aggressione stipulato con l’Unione Sovietica e firmato  dai generali Molotov e Ribbentrop, Hitler attacca la Russia per espandersi verso est.

L’operazione si chiama “Barbarossa”, come il nomignolo di Federico I° di Svevia.  Le truppe italo-germaniche arrivate alle porte di Mosca e di  Leningrado dovranno arrestarsi per la resistenza dell’Esercito popolare sovietico e per il freddo gelido che costituisce di per sé una barriera protettiva per quella nazione;  e sarà un disastro.

Il 7 dicembre 1941, sul fronte orientale, i giapponesi attaccano la flotta americana a Pearl Harbour: questa sarà la goccia che farà traboccare il vaso. L’America, ch’era rimasta alla finestra, dando solo qualche aiutino all’Inghilterra, questa volta entra in guerra tutta intera, vale a dire con tutta la sua potenza economica e militare, a fianco di Inghilterra, Francia e Russia.

Nel’42 le forze dell’Asse (Roma, Berlino, Tokio) ricevono una sonora batosta  in Africa settentrionale e nel Pacifico.

L’8 Luglio 1943 gli anglo-americani sbarcano in Sicilia ed avanzano con la V° Armata americana sulla linea tirrenica, mentre l’VIII° Armata  britannica avanza su quella adriatica. 

 Nel 1943 era chiarissimo a tutti che la coalizione formata principalmente da Italia, Germania e Giappone stava ormai perdendo la guerra.

La pesante sconfitta subita dai tedeschi a Kursk e lo sbarco anglo-americano in Sicilia, cominciato il 10 Luglio 1943, ne erano una precisa conferma.

L’Italia (come già fecero l’Austria-Ungheria nel 1918 e la Francia nel 1940) era di fronte a un bivio: chiedere un armistizio o essere del tutto distrutta, continuando a sacrificare militari e civili in una guerra ormai persa.

In un tal frangente, è dovere di chi guida una nazione concludere al più presto il conflitto, per evitare sacrifici inutili. Ne erano consci anche in Germania, dove solo il fanatismo di Hitler e dei suoi seguaci si opponeva ad una pace negoziata.

 Italiani e tedeschi avevano combattuto gomito a gomito sin dal Giugno 1940. Il nostro esercito, pur riportando numerose vittorie in importanti fatti d’arme, si era esaurito in tre anni di lotta valorosa e durissima.

I militari germanici sapevano benissimo tutto questo.

 Già nell’Aprile 1943, il Principe Ereditario Umberto di Savoia e suo cognato, Filippo d’Assia-Kassel, si accordarono per manifestare a Hitler la loro convinzione che Italia e Germania dovessero uscire dal conflitto.

Il colloquio avvenne a Klessheim in quello stesso mese, ma senza risultato.

 Hitler, aveva perciò pensato,  se necessario,  trasformare l’Italia in un campo di battaglia, che rallentasse il più possibile l’avanzata degli alleati verso la Germania, e diede subito disposizioni per la preparazione del piano “Alarico”, che prevedeva l’invasione del nostro paese. In quel momento, Italia e Germania erano ancora alleate…Quindi stava preparando una vera vigliaccata a danni del nostro paese!

L’Italia fu quindi costretta a far da sé.

Premesso che il 19 Luglio 1943, un lunedi mattina, piovvero su Roma oltre 4000 bombe ad alto potenziale, che colpirono principalmente i quartieri di San Lorenzo, Tiburtino e Tuscolano, provocando 3000 morti e 11000 feriti, di cui solo a san Lorenzo ben 1500 vittime;  avvenimento che  colpì profondamente il morale della capitale e non solo, e che  scosse tanto  Pio XII° che accorse sui luoghi colpiti per portare il solidale sostegno morale ai romani,  il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del Fascismo approvò un ordine del giorno proposto dal conte Dino Grandi ( presidente della camera dei fasci  e delle corporazioni), il quale segretamente capeggiava una congiura (qualcuno dice voluta altri ispirata dal Re), il cui  O. d. G. fu comunicato preventivamente a Mussolini. In esso veniva prevista, fra l’altro, la restituzione al Re di tutti i poteri che gli spettavano in base allo Statuto del Regno, ivi compresa, recitava il testo, “quella suprema iniziativa di decisione che le nostre Istituzioni a lui attribuiscono”.  L’O.d.G. Grandi fu approvato con 19 voti favorevoli, 7 contrari e 1 astenuto.

A questo punto e in tale situazione, Re Vittorio Emanuele III fece il suo dovere di sovrano costituzionale, accettando le dimissioni di Mussolini, il quale si recò da lui il giorno 26 per informarlo, ma il Re lo aspettava con tutto il preparativo per arrestarlo e spedirlo  nella prigione sul Gran Sasso; intanto il re vara il nuovo governo,  guidato dal generale Badoglio, che subito intavolò trattative di pace con gli alleati. (In frangenti simili, si comportarono analogamente, nella maggior parte dei casi anche contro il parere dei loro alleati, Francia, Finlandia, Ungheria e Romania, come già accennato in precedenza).

 Da questo momento scocca l’ora della riscossa e del riscatto italiano. Inizia la Guerra di Liberazione vera e propria.

Devo pure dire che da quanto detto scaturisce pure che non fu l’Italia , ma la Germania a tradire il popolo italiano, spostando il  grosso delle truppe in terra nostra. Questo per sfatare ogni dubbio alimentato dallo slogan nazi-fascista che vuole fossimo noi i traditori.

Prepariamoci ad entrare nella resistenza ascoltando Bella Ciaò 


ORA VIENE LETTA PREGHIERA del PARTGIANO.

 

PREGHIERA DEL RIBELLE
Teresio Olivelli
 (inverno 1943.1944)

Il profondo senso umano e religioso della Resistenza emerge da questo scritto di Teresio Olivelli organizzatore delle Fiamme Verdi del bresciano, rettore del Collegio Ghisleri di Pavia, datosi alla macchia, catturato e deportato morirà nel campo di eliminazione di Herbruck nel gennaio 1945.

SIGNORE
Che fra gli uomini drizzasti la Tua Croce, segno di contraddizione, che predicasti e soffristi la rivolta dello spirito contro le perfidie e gli interessi dei dominanti, la sordità inerte della massa, a noi oppressi da un giogo oneroso e crudele che in noi e prima di noi ha calpestato Te fonte di libere vite, dà la forza della ribellione.
DIO
Che sei Verità e Libertà, facci liberi e intensi, alita nel nostro proposito, tendi la nostra volontà, moltiplica le nostre forze, vestici della Tua armatura: noi Ti preghiamo. Signore.
TU
Che fosti respinto, vituperato, tradito, perseguitato, crocefisso, nell'ora delle tenebre ci sostenti la Tua vittoria: sii nell'indigenza viatico, nel pericolo sostegno, conforto nell'amarezza. Quanto più s'addensa e incupisce l'avversario, facci limpidi e diritti.
Nella tortura serra le nostre labbra. Spezzaci non lasciarci piegare. Se cadremo, fa che il nostro sangue si unisca al Tuo innocente e a quello dei nostri Morti, a crescere al mondo giustizia e carità.
TU
Che dicesti “Io sono la resurrezione e la vita” rendi nel dolore all'Italia una vita generosa e severa. Liberaci dalla tentazione degli affetti:, veglia Tu sulle nostre famiglie.
Sui monti ventosi e nelle catacombe della città, dal fondo delle prigioni, noi Ti preghiamo: sia in noi la pace che Tu solo sai dare.
DIO
Della pace degli eserciti. Signore che porti la spada e la gioia, ascolta la preghiera di noi,
RIBELLI PER AMORE

Pubblicata nel giornale clandestino “II ribelle”, n. 4 e ripresa in La resistenza nella letteratura, a cura dell'Associazione Partigiani A. Di Dio, Milano, 1955, p. 149


 

Ora passiamo velocemente a ripercorrere i fatti salienti della guerra di Liberazione.

I tedeschi che avevano saputo anticipatamente dell’armistizio firmato il 3 settembre 1943, a Cassibile (SR) dai generali Castellano e Walter Bedell Smith, con il quale l’Italia  si impegnava a cessare le ostilità a partire dall’8 settembre, si preparano a rivolgere le armi contro i soldati italiani, i quali all’annuncio dell’armistizio , restano sbandati, non sanno da chi prendere ordini, mancando ogni collegamento con i comandi e con i vertici militari e politici. In questo frangente ogni comandante fa da sé. Non mancano atti di eroismo di molti soldati, né  dei nostri civili che già da un pezzo hanno iniziato una guerriglia di sfiancamento sulle montagne  appenniniche..

Il 9 settembre gli alleati sbarcano a Salerno e avanzano , sfondando la Linea Gustav, mentre i tedeschi si ritirano  sulla linea Gotica (che va da Rimini a Massa).

 Viene formato il Comitato di Liberazione Nazionale (C.N.L.A.I.) con le brigate partigiane “Giustizia e Libertà” e “Matteotti”.

Per iniziativa del Principe Umberto di Savoia si ricostituì il Regio Esercito.

Fu proprio per sua iniziativa, infatti, che nacque il Primo Raggruppamento

Motorizzato, trasformato nel più potente “C.I.L.” (Corpo Italiano di Liberazione) il 17 Aprile 1944.

Nel Settembre dello stesso anno  l’esercito si riorganizzò su 4 divisioni (“Cremona”, “Forlì”, “Foligno” e “Legnano”).

La Commissione Alleata di Controllo vietò al Principe ereditario di assumere il comando del C.I.L. e cercò di impedirgli di partecipare alle operazioni militari.

La stessa commissione vietò perentoriamente anche la partecipazione di Umberto di Savoia alla guerriglia partigiana. Ciò era ovvio, poiché la casa Savoia non poteva dirsi estranea agli avvenimenti che avevano portato al disastro il nostro paese.

 A questa, però, parteciparono molte formazioni regolari dell’esercito che, alla  data dell’armistizio, si trovavano nel nord. Ricordiamo, fra le tante, la

formazione piemontese costituita dai soldati della IV Armata, i gruppi operanti in Lombardia e nel Veneto, il gruppo “Berta” di Tullio Benedetti, la banda comandata da Manrico Duceschi (“Pippo”) e la banda di Bosco Martese, che agiva nel Teramano.

 Intanto nel 1944 gli americani sbarcano in Normandia e l’esercito tedesco viene sfiancato, attaccato su due fronti l’uno ad ovest con gli anglo-americani, l’altro ad Est ad opera dei Russi. I tedeschi cercano allora di rientrare in Germania per rinforzare le linee di difesa della madrepatria.

Il 21 aprile 1945 gli alleati entrano a Bologna, i cui cittadini erano insorti contro i tedeschi. In seguito  tra il 24 e  il 30 aprile scoppiano scioperi ed insurrezioni anche a Genova , a Cuneo, a Torino e a Milano.

Mussolini, che dopo la liberazione dal luogo di isolamento sul Gran Sasso aveva fondato la Repubblica Sociale, dando manforte a Hitler, vista la malaparata fugge e viene sorpreso, insieme alla sua amante Claretta Petacci, nei pressi di Dongo (Co), in località  Musso il 27 aprile  1945 su un’autocolonna tedesca, riconosciuto dai partigiani viene fermato e  arrestato. Condannato a morte dal Comitato di Liberazione nazionale, viene giustiziato il 28 aprile  1945, alle ore 16,10 a Giulino di Mezzegna. I loro corpi saranno esposti a Piazzale Loreto in Milano il 29 aprile.

La loro esposizione al pubblico fu fatta per due motivi: il primo, per vendicare  il turpiloquio fatto ad opera dei nazi-fascisti dei cadaveri di quindici partigiani sullo stesso luogo; il secondo, per dare un forte segnale  ai tanti  fascisti che ancora operavano nelle città del nord.

I quindici partigiani erano tutti detenuti a San Vittore per attività contro il regime; molti furono arrestati perché sorpresi a distribuire volantini contro il fascismo. Essi furono svegliati alle 4,30 del mattino del giorno 10 Agosto 1944 col pretesto di trasferirli in un campo di lavoro in Germania, fecero indossare loro una tuta da lavoro e li caricarono su un camion tedesco. Invece  li portarono in Piazzale Loreto e  li fucilarono per rappresaglia con il pretesto che una bomba era stata fatta esplodere dai partigiani  in Via Abruzzi, bomba che peraltro non aveva fatto vittime.

I loro nomi sono ricordati su una lapide:

Umberto Fogagnolo, Domenico Fiorani, Giulio Casiraghi, Tullio Galimberti, Vitale Vertemobile, Eraldo Soncini, Andrea Esposito, Andrea Ragni, Libero Temolo, Emidio Mastrodomenico,  Salvatore Principato, Renzo Del Riccio, Angelo Poletti, il quale fu ripetutamente torturato, Arturo Gasparini e Gian Antonio Brovin tutti giovani operai  e impiegati, molti padri di famiglia che erano stati arrestati solo perché non condividevano la sua politica. I loro corpi furono a lungo esposti al dileggio dei fanatici fascisti milanesi.

Ho voluto ricordare dettagliatamente questi martiri perché mi sento scandalizzato ogni volta che qualcuno stigmatizza l’esposizione dei corpi del Dittatore e della sua Amante.  Ma perché? Non fu lui stesso a dire ai suoi seguaci  “ se indietreggio fucilatemi”!   E quale pietà avrebbe potuto invocare una persona che ha distrutto un paese, mandato a morire milioni di uomini e perfino fatto ammazzare il marito di sua figlia e padre dei suoi nipoti, soltanto perché, da persona assennata, gli aveva suggerito di uscire da una guerra che stava già andando male? Scusatemi se per questo ho calcato la mano, non amo le ipocrisie, andiamo avanti, dunque.

Pochi giorni dopo il suo arresto furono presi e condannati a morte molti dei gerarchi fascisti.

Viene nominato un governo provvisorio retto da Ferruccio Parri, a cui seguirà il governo De Gasperi. Vittorio Emanuele III abdica a favore del figlio Umberto.

Viene indetto il referendum per la scelta tra monarchia e repubblica; il 2 giugno 1946 gli italiani vengono chiamati alle urne e scelgono lo Stato Repubblicano. Alcide De Gasperi, con una mossa intelligente, si proclama Capo Provvisorio dello Stato della Repubblica Italiana.  Umberto di Savoia parte per l’esilio. Viene eletta l’Assemblea Costituente.

2° intermezzo:  Fischia il vento  (fischia il v.)


 

LETTURA DI LETTERE DI CONDANNATI

Albino Albico

Di anni 24 - operaio fonditore - nato a Milano il 24 Novembre 1919. Prima dell'8 Settembre 1943 svolge propaganda e diffonde stampa antifascista. Arrestato il 28 Agosto 1944 - sommariamente processato - e fucilato lo stesso 28 Agosto, contro il muro di Via Tibaldi a Milano.

Carissimi, mamma, papa, fratello sorella e compagni tutti, mi trovo senz'altro a breve distanza dall'esecuzione. Mi sento però calmo e muoio sereno e con l'animo tranquillo. Contento di morire per la nostra causa: il comunismo e per la nostra cara e bella Italia. Il sole risplenderà su noi "domani "perché TUTTI riconosceranno che nulla dì male abbiamo fatto noi. Voi siate forti come lo sono io e non disperate. Voglio che voi siate fieri ed orgogliosi del vostro Albuni che sempre vi ha voluto bene

Achille Barilatti detto Gilberto della Valle

Di anni 22 - studente in scienze economiche e commerciali - nato a Macerata il 16 Settembre 1921. Tenente di complemento di Artiglieria, dopo 1'8 Settembre 1943 raggiunge Vestignano sulle alture maceratesi, dove nei mesi successivi si vanno organizzando formazioni partigiane. Catturato all'alba del 22 Marzo 1944 ed interrogato da un ufficiale tedesco e da uno fascista. Fucilato senza processo il 23 Marzo, contro la cinta del cimitero di Muccia.

Mamma adorata, quando riceverai la presente sarai già straziata dal dolore. Mamma, muoio fucilato per la mia idea. Non vergognarti di tuo figlio, ma sii fiera di lui. Non piangere Mamma, il mio sangue non si verserà invano e l'Italia sarà di nuovo grande. Da Dita Marasli di Atene potrai avere i particolari dei miei ultimi giorni. Addio Mamma, addio Papà, addio Marisa e tutti i miei cari; muoio per l'Italia. Ricordatevi della donna di cui sopra che tanto ho amata. Ci rivedremo nella gloria celeste. Viva l’ITALIA LIBERA! Achille

 Franco Balbis detto Francis

Di anni 32 - uffìciale in Servizio Permanente Effettivo - nato a Torino il 16 ottobre 1911 - Capitano di Artiglieria in Servizio di Stato Maggiore, combattente a Ain El Gazala, El Alamein ed in Croazia, decorato di Medaglia d'Argento, di Medaglia di Bronzo e di Croce di Guerra di 1a Classe - all'indomani dell'8 settembre 1943 entra nel movimento clandestino di Torino - è designato a far parte del 1° Comitato Militare Regionale Piemontese con compiti organizzativi e di collegamento -. Arrestato il 31 marzo I944, da elementi della Federazione dei Fasci Repubblicani di Torino, mentre partecipa ad una riunione del CMRP nella sacrestia di San Giovanni in Torino -. Processato nei giorni 2-3 aprile 1944 dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato -. Fucilato il 5 aprile 1944 al Poligono Nazionale del Martinetto in Torino, da plotone di militi della GNR, con Quinto Bevilacqua, Giulio Biglieri, Paolo Bracciní, Errico Giachino, Eusebio Giambone, Massimo Montano e Giuseppe Perotti -. Medaglia d'Oro e Medaglia d'Argento al Valor Militare.

Torino, 5 aprile 1944                                                                                   

La Divina Provvidenza non ha concesso che io offrissi all'Italia sui campi d'Africa quella vita che ho dedicato alla Patria il giorno in cui vestii per la prima volta il grigioverde. Iddio mi permette oggi di dare l'olocausto supremo di tutto me stesso all'Italia nostra ed io ne sono lieto, orgoglioso e felice! Possa il mio sangue servire per ricostruire l'unità italiana e per riportare la nostra Terra ad essere onorata e stimata nel mondo intero. Lascio nello strazio e nella tragedia dell'ora presente i miei Genitori, da cui ho imparato come si vive, si combatte e si muore; li raccomando alla bontà di tutti quelli che in terra mi hanno voluto bene. Desidero che vengano annualmente celebrate, in una chiesa delle colline torinesi due messe: una il 4 dicembre anniversario della battaglia di Ain el Gazala; l'altra il 9 novembre, anniversario della battaglia di El Alamein; e siano dedicate e celebrate per tutti i miei Compagni d'armi, che in terra d'Africa hanno dato la vita per la nostra indimenticabile Italia. Prego i miei di non voler portare il lutto per la mia morte; quando si è dato un figlio alla Patria, comunque esso venga offerto, non lo si deve ricordare col segno della sventura. Con la coscienza sicura d'aver sempre voluto servire il mio Paese con lealtà e con onore, mi presento davanti al plotone d'esecuzione col cuore assolutamente tranquillo e a testa alta.                  

Possa il mio grido di "Viva l'Italia libera" sovrastare e smorzare il crepítio dei moschetti che mi daranno la morte; per il bene e per l'avvenire della nostra Patria e della nostra Bandiera, per le quali muoio felice

Irma Marchiani  detta Anty

Di anni 33 - casalinga - nata a Firenze il 6 febbraio 1911 -. Nei primi mesi del 1944 è informatrice e staffetta di gruppi partigiani formatisi sull'Appennino modenese - nella primavera dello stesso anno entra a far parte del Battaglione " Matteotti ", Brigata " Roveda ", Divisione "Modena" - partecipa ai combattimenti di Montefiorino - catturata mentre tenta di far ricoverare in ospedale un partigiano ferito, è seviziata, tradotta nel campo di concentramento di Corticelli (Bologna), condannata a morte, poi alla deportazione in Germania - riesce a fuggire - rientra nella sua formazione di cui è nominata commissario, poi vice-comandante - infermiera, propagandista e combattente, è fra i protagonisti di numerose azioni nel Modenese, fra cui quelle di Monte Penna, Bertoceli e Benedello -. L'11 novembre 1944, mentre con la formazione ridotta senza munizioni tenta di attraversare le linee, è catturata, con la staffetta "Balilla", da pattuglia tedesca in perlustrazione e condotta a Rocca Cometa, poi a Pavullo nel Frignano (Modena) -. Processata il 26 novembre I944, a Pavullo, da ufficiali tedeschi del Comando di Bologna -. Fucilata alle ore 17 dello stesso 26 novembre 1944, da plotone tedesco, nei pressi delle carceri di Pavullo, con Renzo Costi, Domenico Guidani e Gaetano Ruggeri "Balilla") -. Medaglia d'Oro al Valor Militare.

Sestola, da la "Casa del Tiglio", 1° agosto 1944

  Carissimo Piero, mio adorato fratello, la decisione che oggi prendo, ma da tempo cullata, mi detta che io debba scriverti queste righe. Sono certa mi comprenderai perché tu sai benissimo di che volontà io sono, faccio, cioè seguo il mio pensiero, l'ideale che pur un giorno nostro nonno ha sentito, faccio già parte di una Formazione, e ti dirò che il mio comandante ha molta stima e fiducia in me. Spero di essere utile, spero di non deludere i miei superiori. Non ti meraviglia questa mia decisione, vero?                   

Sono certa sarebbe pure la tua, se troppe cose non ti assillassero. Bene, basta uno della famiglia e questa sono io. Quando un giorno ricevetti la risposta a una lettera di Pally che l'invitavo qui, fra l'altro mi rispose "che diritto ho io di sottrarmi al pericolo comune?" t vero, ma io non stavo qui per star calma, ma perché questo paesino piace al mio spirito, al mio cuore. Ora però tutto è triste, gli avvenimenti in corso coprono anche le cose più belle di un velo triste. Nel mio cuore si è fatta l'idea (purtroppo non da troppi sentita) che tutti più o meno è doveroso dare il suo contributo. Questo richiamo è così forte che lo sento tanto profondamente, che dopo aver messo a posto tutte le mie cose parto contenta. "Hai nello sguardo qualcosa che mi dice che saprai comandare", mi ha detto il comandante, "la tua mente dà il massimo affidamento; donne non mi sarei mai sognato di assumere, ma tu sì". Eppure mi aveva veduto solo due volte.                 

Saprò fare il mio dovere, se Iddio mi lascerà il dono della vita sarò felice, se diversamente non piangere e non piangete per me.                                

Ti chiedo una cosa sola: non pensarmi come una sorellina cattiva. Sono una creatura d'azione, il mio spirito ha bisogno di spaziare, ma sono tutti ideali alti e belli. Tu sai benissimo, caro fratello, certo sotto la mia espressione calma, quieta forse, si cela un'anima desiderosa di raggiungere qualche cosa, l'immobilità non è fatta per me, se i lunghi anni trascorsi mi immobilizzarono il fisico, ma la volontà non si è mai assopita. Dio ha voluto che fossi più che mai pronta oggi. Pensami, caro Piero, e benedicimi. Ora vi so tutti in pericolo e del resto è un po' dappertutto. Dunque ti saluto e ti bacio tanto tanto e ti abbraccio forte.

Tua sorella  Paggetto

Ringrazia e saluta Gina.

 Prigione di Pavullo, 26.11.1944

Mia adorata Pally, sono gli ultimi istanti della mia vita. Pally adorata ti dico a te saluta e bacia tutti quelli che mi ricorderanno. Credimi non ho mai fatto nessuna cosa che potesse offendere il nostro nome. Ho sentito il richiamo della Patria per la quale ho combattuto, ora sono qui... fra poco non sarò più, muoio sicura di aver fatto quanto mi era possibile affinché la libertà trionfasse.

Baci e baci dal tuo e vostro Paggetto

Vorrei essere seppellita a Sestola.

 Aldo Mei

Di anni 32 - sacerdote - nato a Ruota (Lucca) il 5 marzo 1912 -.Vicario Foraneo del Vicariato di Monsagrati (Lucca) - aiuta renitenti alla leva e perseguitati politici - dà ai partigiani assistenza religiosa -. Arrestato il 2 agosto 1944 nella Chiesa di Fiano, ad opera di tedeschi, subito dopo la celebrazione della Messa - tradotto a Lucca, sotto l'imputazione di avere nascosto nella propria abitazione un giornalista ebreo-. Fucilato alle ore 22 del 4 agosto 1944, da plotone tedesco.

 Babbo e Mamma,                                                                                

state tranquilli - sono sereno in quest'ora solenne. In coscienza non ho commesso delitti: solamente ho amato come mi è stato possibile. Condanna a morte - I° per aver protetto e nascosto un giovane di cui volevo salva l'anima, 2° per aver amministrato i sacramenti ai partigiani, e cioè aver fatto il prete. Il terzo motivo non è nobile come i precedenti - aver nascosto la radio. …

Muoio travolto dalla tenebrosa bufera dell'odio io che non ho voluto vivere che per l'amore! << Deus Charitas est>> e Dio non muore. Non muore l'Amore! Muoio pregando per coloro stessi che mi uccidono. Ho già sofferto un poco per loro..... Muoio anzitutto per un motivo di carità. Regina di tutte le virtù Amate Dio in Gesù Cristo, amatevi come fratelli. Muoio vittima dell'odio che tiranneggia e rovina il mondo - muoio perché trionfi la carità cristiana.

Amate la Chiesa - vivete e morite per Lei - è la Vita e la Morte veramente più bella…

…Tutto il popolo ricordi e osservi il voto collettivo di vita cristiana. Fuggite tutti il peccato unico vero male che attrista nel tempo e rovina irreparabilmente nella eternità.

Grazie a quanti hanno gentilmente alleviato, con preghiere e con altro la mia prigionia e la mia morte

Il povero Don Aldo Mei

*** https://www.youtube.com/watch?v=s0bygJ2jBmE        voci della montagna

 Lorenzo Viale

Di anni 27 - ingegnere alla FIAT di Torino - nato a Torino il 25 dicembre 1917 -. Addetto militare della squadra "Diavolo Rosso", poi ufficiale di collegamento dell'organizzazione "Giovane Piemonte" - costretto a lasciare Torino, si unisce alle formazioni operanti nel Canavesano -. Catturato l'8 dicembre 1944 a Torino, nella propria abitazione, in seguito a delazione, per opera di elementi delle Brigate Nere, essendo sceso dalla montagna nel tentativo di salvare alcuni suoi compagni -. Processato l'8 febbraio 1945, dal Tribunale Co:Gu: (Contro Guerriglia) di Torino, perché ritenuto responsabile dell'uccisione del prefetto fascista Manganiello -. Fucilato l'11 febbraio 1945 al Poligono Nazionale del Martinetto in Torino, da plotone di militi della GNR, con Alfonso Gindro ed altri tre partigiani.

Torino, 9 febbraio 1945

Carissimi,

una sorte dura e purtroppo crudele sta per separarmi da voi per sempre. Il mio dolore nel lasciarvi è il pensiero che la vostra vita è spezzata, voi che avete fatti tanti sacrifici per me, li vedete ad un tratto frustrati da un iniquo destino. Coraggio! Non potrò più essere il bastone dei vostri ultimi anni ma dal cielo pregherò perché Iddio vi protegga e vi sorregga nel rimanente cammino terreno. La speranza che ci potremo trovare in una vita migliore mi aiuta a sopportare con calma questi attimi terribili. Bisogna avere pazienza, la giustizia degli uomini, ahimè, troppo severa, ha voluto così. Una cosa sola ci sia di conforto: che ho agito sempre onestamente secondo i santi principi che mi avete inculcato sin da bambino, che ho combattuto lealmente per un ideale che ritengo sarà sempre per voi motivo di orgoglio, la grandezza d'Italia, la mia Patria: che non ho mai ucciso, né fatto uccidere alcuno: che le mie mani sono nette di sangue, di furti e di rapine. Per un ideale ho lottato e per un ideale muoio. Perdonate se ho anteposto la Patria a voi, ma sono certo che saprete sopportare con coraggio e con fierezza questo colpo assai duro.

Dunque, non addio, ma arrivederci in una vita migliore. Ricordatevi sempre di un figlio che vi chiede perdono per tutte le stupidaggini che può aver compiuto, ma che vi ha sempre voluto bene.

Un caro bacio ed abbraccio

Renzo

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PRIMA DI PASSARE AI FATTI DI CASA NOSTRA DEVO RECRIMINARE CON FERMEZZA IL COMPORTAMENTO DELLE FORMAZIONI BRITANNICHE composte di nordafricani (marocchini, tunisini ed algerini) che, autorizzati dai loro comandi, commisero ogni sorta di turpiloquio e spoliazioni ai danni delle popolazioni civili del cassinate e dei paesi limitrofi, tra cui si annoverano anche Mignano di Montelugo, Venafro e dintorni. Queste popolazioni furono sottoposte a stupri  e ruberie e soprusi e  mi pare che fino ad oggi non sono stati ripagati e nessuna condanna è stata emessa nei confronti degli autori. Anche questi sono crimini di guerra, vietati dalle convenzioni internazionali. Questa gente, in quei giorni, rimpianse l’assoggettamento ai tedeschi, i quali si erano comportati con loro con rispetto ed educazione. Questo lo devo dire per amore di verità.

Devo pure ricordare  un giovane partigiano molisano Mario Brusa Romagnoli; questo giovane nato a Guardiaregia nel 1924, che fin da bambino si trasferì con la famiglia a Torino  per motivi di lavoro, a 19 anni entrò a far parte  della Banda Pugnetto con lo pseudonimo di “Nando”, combattendo sulle montagne genovesi. Ferito in uno scontro, fu arrestato. Riuscì a fuggire dal carcere e si unì alla formazione Mauri, operante a Torino. Insieme con altri compagni, incaricati di assaltare un convoglio ferroviario tedesco sulla linea Torino-Milano, all’altezza di Brussasco Cavagnolo. Nello scontro a fuoco fu ferito nuovamente e catturato, il 25 marzo 1945. Condotto a Livorno Ferraris, fu fucilato il 30 marzo nella piazza Galileo Ferraris; il plotone di esecuzione era composto di italiani  della Monterosa. Prima di essere fucilato scrisse una toccante lettera alla madre, chiedendo di essere sepolto accanto al fratello Filippo. Morì gridando come tutti gli eroi “Viva l’Italia!”. A Lui fu concessa dapprima la medaglia d’argento e poi, nel 1965, nel ventennale della Resistenza, la medaglia d’oro, su iniziativa dell’Amministrazione Prov.le di Vercelli.

Ascoltiamo questa sua ultima lettera inviata alla madre:

“ Papà e Mamma, è finita per il vostro figlio Mario, la vita è una piccolezza, il maledetto nemico mi fucila; raccogliete la mia salma e ponetela vicino a mio fratello Filippo.

Un bacio a te Mamma cara, Papà, Melania, Annamaria e zia, a Celso un bacio dal suo caro fratello che dal cielo guiderà il loro destino in salvo da questa vita  tremenda. Addio. W. L’Italia! Mario Nando

P.S. Mi sono perduto alle ore 12 e alle 12 e 5 non ci sarò più per salutare la Vittoria. “

Il Nostro non fu l’unico patriota della famiglia, poiché già il fratello Filippo, di anni 24, e l’altro fratello Teobaldo, di anni 18 erano caduti per la Resistenza.

Da ultimo ricordiamo pure Giuseppe Barbato, quest’ultimo, di professione sarto, si arruolò nel Corpo delle Guardie di Frontiera e prestò servizio sul fronte italo- francese. Dopo l’8 settembre si portò sui monti cuneeesi e entrò a far parte della 104° Brigata Garibaldi “ Carlo Fissone”. Che operava in Piemonte.. Arrestato durante un rastrellamento tedesco, fu incarcerato a Cuneo. Durante la prigionia gli fu chiesto se voleva lavorare ed egli diede la sua disponibilità, pensando di poter evadere; invece lo trasferirono a Centalto. Durante il trasferimento il convoglio fu attaccato da una formazione partigiana. Allora la scorta  spinse lui ed altri tre detenuti giù per la scarpata  lo condussero in località Chiabotti Duelli dove, per rappresaglia, lo fucilarono insieme ai suoi compagni. Era il 30 settembre 1944. Sul luogo è stato apposto un cippo che  ne tramanda la memoria.  

Continuando parliamo ora  dei fatti molisani e diciamo, subito, che Radio Londra, alle ore 15,30 dell’8 settembre, diffuse la notizia ed un minuto dopo alcuni giovani universitari  campobassani scesero in strada gridando: La guerra è finita! È finita la guerra! E la gente in strada corse ad abbracciarsi e a sorridere. Ma i poliziotti increduli li fermarono,  li portarono in questura, tolsero loro lacci e le scarpe e li rinchiusero in guardina. Poi dopo alcune ore dovettero rilasciarli perché le pressioni dei genitori ( alcuni erano personaggi in vista )  s’erano fatte pericolose. Ecco come reagì il potere nella nostra città! Ma intanto anche nelle ore successive e nei giorni successivi nessun proclama era stato diffuso dalle autorità locali.

Dovette passare ancora qualche giorno per renderci conto che effettivamente la guerra  era finita, poiché in città incominciarono ad arrivare gli sbandati, alla men peggio, con qualsiasi mezzo. Li vedevi stanchi, buttati a terra, affamati. Le case si riempirono di profughi, molti provenienti dalla vicina Campania.

Nel contempo, nei giorni successivi, in città arrivarono altre truppe tedesche che dall’Abruzzo indietreggiavano verso Roma. In quei giorni la città era affamata, ci furono molti episodi di furti. Le truppe tedesche portavano via tutto ciò che serviva per il loro vettovagliamento. A Campobasso ci fu pure una protesta attuata da alcune donne che occuparono la Prefettura; alcune di queste talmente infervorite afferrarono il prefetto e lo appesero testa giù pensoloni per il balcone. Esse erano affamate, non avevano altro sostegno che il sussidio militare che era una elemosina. A loro non fu fatto niente e il Prefetto promise degli aiuti. Di queste ne ricordo il soprannome di una, che ho conosciuto personalmente. Ricordo che era una donna molto energica.   

Nei giorni tra il 7 e  il 13 ottobre la città fu cannoneggiata; le granate passavano sopra di noi, mia madre diceva che andavano a cadere verso Vinchiaturo. Una di esse cadde sul Seminario e colpì il vescovo Mons Secondo Bologna, che la sera dell’11 stava raccolto in preghiera nella cappella con una suora. (del fatto fu testimone oculare don Michele Ruccia suo segretario che era sceso a chiamarlo per informarlo  dei danni che il bombardamento aveva provocato. Mons Ruccia rimase impietrito sulla porta d’ingresso proprio mentre la bomba dilaniava il vescovo e del fatto diede testimonianza, successivamente, ai suoi studenti dell’Istituto Magistrale. Leggi con occhi velati di F.L. D’Ugo, il Filo Editore Roma ).  

Ci furono pure alcuni mitragliamenti  aerei, uno in particolare fece delle vittime davanti alla stazione e davanti al deposito locomotive.

Mentre Isernia fu bombardata il 10 settembre per errore dagli alleati che provocarono una carneficina. Per questo la città è stata decorata con medaglia d’oro.

 Le ultime truppe tedesche si preparavano ad andare verso Cassino, fecero saltare le tubature dell’acqua e del gas; fecero saltare i magazzini e i depositi di carburante. Portarono via animali da macellare, specie maiali, lasciando nello sconforto coloro che erano stati i legittimi proprietari.  In città erano rimasti una trentina di soldati che sparavano di tanto in tanto qualche colpo di obice tanto per far notare la loro presenza.

Ci furono alcune persone che si recarono nei pressi del cimitero ed  avvisarono gli alleati che i tedeschi si stavano dirigendo verso Roma e che la città ormai era indifesa. Le truppe alleate finalmente entrarono in città: era il 14 ottobre, al mattino. Erano canadesi e polacchi.  Ed ora finalmente la gente scese in strada ad accoglierli e a festeggiarli.

I soldati distribuivano sigarette e cioccolata  e scatolette di carne. 

Da noi dopo l’8 settembre avvengono isolati episodi di  resistenza contro i tedeschi; mentre forte è la rabbia contro i simboli del fascismo e qualche vendetta verso alcuni gerarchi: ad esempio a san Giovanni in Galdo il Potestà fu scacciato dalla sua abitazione da alcuni uomini del paese e trascinati in piazza a colpi di calci nel sedere, mentre la popolazione  assaliva i suoi magazzini , in cui avevano trovato ogni ben di Dio : grosse casse di pasta, lardo, prosciutti, salami, scatolette di tonno, farina, legumi ed ogni sorta di vettovaglia, tutta roba negata al popolo nei giorni  di carestia e fame. A Duronia, a Montelongo, a Macchiavalfortore ed in altri paesi vengono occupate le sedi del Fascio. Furono liberati i politici e gli ebrei che erano reclusi nei campi di concentramento di Vinchiaturo, Casacalenda, Boiano, Agnone e Isernia. Furono arrestati e  portati a san Giovanni in Galdo il Podestà Correra  e il Preside Fraticelli; altri come Guido Iamiceli, Renato Pistilli furono fermati. Processati verranno tutti rimessi in libertà, dopo un breve periodo di prigionia a Padula; solo qualcuno  fu mandato per un breve periodo presso un campo di prigionia inglese. 

Ci fu un morto in Via Veneto, un maggiore della milizia, che fu assalito da alcuni civili e soldati rientrati, ma il morto ci scappò perché la figlia di costui aveva collaborato con i tedeschi, come interprete. Alcuni personaggi, aiutarono gli americani ad arrestare i fascisti che avevano avuto qualche minima responsabilità; ma non mancarono piccole vendette personali.

I ( liberatori), tra virgolette, (visto che radio Londra nei suoi bollettini annunciavano quotidianamente la liberazione di ogni paese: ad esempio: Le truppe inglesi hanno liberato la città di Montagano, ecc.) portarono un certo cambiamento di costumi, con la loro musica, e la gente si lasciava coinvolgere anche dalle offerte di denaro e viveri.

La città era stata designata quale luogo di riposo delle truppe impegnate in prima linea sul fronte di Cassino. Insomma offriva ogni tipo di ristoro per i combattenti inglesi e polacchi. Riferimenti a ciò li troviamo anche in Rodolfo Mastropaolo “ Colloqui con mio padre”, che destina molte pagine ai giorni della liberazione. Costui fu proprio uno di quelli che nel pomeriggio dell’8 settembre fu arrestato, il cui padre era comandante del Distretto, visto che gli ufficiali più in alto di grado erano andati via. Il padre di Rodolfo mise a disposizione dei campobassani affamati tutti i beni di magazzino avanzati, dopo che i tedeschi avevano soddisfatto alle loro necessità.

Andando avanti con il  discorso,  non possiamo ignorare  quei martiri che sono stati trucidati dai tedeschi in ritirata per aver tentato o pensato soltanto ad una parvenza di opposizione allo strapotere nazista:  primi fra tutti i martiri di Fornelli, impiccati il 27 ottobre 1943: avv. Giuseppe Laurelli, podestà, don Antonio D’Ambrosio, parroco, Giuseppe Castaldi, Vincenzo Castaldi, Celestino Lancellotta, Domenico Lancellotta, Michele Petrarca tutti liberi cittadini.

A Lucito, ci racconta in un suo scritto  Luluccio De Rubertis, che  un povero contadino , cercando di difendere l’unico suo bene, l’asino, che gli veniva requisito senza tanti complimenti, addentò con un morso il soldato per fargli mollare la cavezza, ebbene costui che risponde al nome di Alessandro Baccaro, fu costretto a scavarsi la fossa prima di essere fucilato all’interno di essa; dopo di che, non contenti gli incendiarono la casa in paese. Ma ce ne sono tanti altri di episodi da raccontare, ma la lista sarebbe lunga ed io  mi fermo anche perché, i nostri martiri rappresentano una bazzecola rispetto  alla enorme quantità di cittadini uccisi per rappresaglia nel resto dell’Italia!

Se noi volessimo ripagare il popolo tedesco con la stessa medaglia, facendo un calcolo approssimativo e cambiando le proporzioni, sapendo che per un soldato tedesco morto ne giustiziarono mediamente dodici civili italiani , noi ne dovremmo ammazzare dieci volte 12 soldati tedeschi per ogni nostro povero civile  a cui fu tolta la vita, poiché i nostri erano persone che non avevano fatto male a nessuno; ed allora non so se una città come Bonn potesse ancora esistere!  

Sul piano militare vero e proprio c’è da ricordare il contributo dato dagli alpini molisani alla costituzione del Battaglione “Piemonte” che si era trasferito nell’Alto Molise e che si era dimostrato forza determinante per la conquista di Monte Marrone, ultimo ostacolo all’avanzata alleata verso la capitale, ma da Sud-Est.  

La compagnia molisana era comandata dal capitano Ezio Campanella di Boiano.    

Riflettendo, quindi,  devo dire che in effetti solo pochi molisani furono impegnati nella resistenza. Come pure devo constatare che  la maggior parte votò a favore della monarchia, al successivo referendum del 2 giugno 1946.

 Altra constatazione è pure che tutti coloro che erano stati a capo delle istituzioni  e ai vertici del partito fascista, salvo poche eccezioni, all’avvento della repubblica passarono nelle file democristiane e liberali e restarono tutti ad amministrare la cosa pubblica. Ciò certamente non ha giovato molto al Molise post-bellico, ma questo potrebbe essere oggetto di riflessione per altro incontro.

Avviandomi a chiudere questo mio modesto intervento, dico che il 25 aprile 1946 segna il culmine del risveglio della coscienza nazionale. Alla Liberazione della Patria nostra si poté arrivare grazie al sacrificio di tanti giovani, ragazzi e ragazze ( una per tutte Tina Anselmi a cui va principalmente la mia stima e la mia simpatia), ragazzi, ripeto, che pur appartenendo ad ampio schieramento politico, si chiamavano tutti con una parola sola: Partigiani e che combatterono al fianco di molti soldati, provenienti da paesi lontani e diversi ( Stati Uniti d’America, Australia, Inghilterra, Francia, che includevano pure  brasiliani e democratici di tutto il mondo), ma tutti accolti come alleati.

Quindi fu dunque la Resistenza partigiana a riscattare il nostro onore e la dignità del nostro paese. Fu dunque essa che  alimentò la sete di riscatto e che ci condusse il 2 giugno 1946 alla Repubblica Italiana, fondata sulla Pace, sul Lavoro e sullo Sviluppo

Concludendo, non posso fare a meno di chiudere senza ricorrere a quanto scritto dall’Associazione Nazionale Partigiani, e di riferire pure alcune parole dette negli anni addietro dal presidente Ciampi e dal presidente dell’ANPI Paolo Emilio Taviani:.

“Certamente, la Resistenza fu una guerra,  dura, con tutti i sacrifici e gli immani dolori . Ma fu anche il nuovo Risorgimento; una forza popolare che germinò spontanea e genuina acquistando, gradatamente, coscienza e consapevolezza, per divenire poi la rappresentanza viva e legittima presa di coscienza di un intero

popolo che anelava ad una nuova vita.

E oggi, quelle aspirazioni, sono base vitale ed operante della nostra vita civile.

Una Resistenza che, contrariamente a quanto taluni sostengono, ha avuto un supporto prezioso ed indispensabile nella partecipazione popolare, in quella “resistenza civile” che permise alle forze partigiane di riuscire anche là dove l’insufficienza dei mezzi e di organizzazione avrebbe potuto far segnare una partita perduta.

E, alla Resistenza vi parteciparono molte formazioni partigiane,  all’interno di esse di diverso orientamento ideologico (comunisti, democristiani, socialisti, repubblicani, liberali, azionisti e anche militari “alla macchia”). Non raramente, la scelta della formazione fu casuale, dovuta a motivi contingenti e territoriali che non consentivano

alternative.

L’obiettivo primario era la lotta al governo illegittimo imposto con la forza dal tedesco invasore.

Si combatteva, quindi, per la libertà dell’Italia e degli italiani, rimandando a dopo la vittoria l’esternazione di una eventuale appartenenza politica, pur nel comune intento dell’affermazione dei valori di libertà e di democrazia, manifestatisi poi nella

elaborazione della Costituzione repubblicana.

Non a caso, in più occasioni, l’allora Presidente della Repubblica

Carlo Azeglio Ciampi, ebbe a dire che “La Resistenza vive nella

Costituzione”. Essa, infatti, è stata la grande conquista della nostra lotta

di Liberazione e non vi è dubbio che si è nel giusto quando si afferma

che la Costituzione ha le sue basi nella Resistenza”.

 Un protagonista della lotta partigiana, Paolo Emilio Taviani, era categorico nell’affermare che “dalla Resistenza è nata la Repubblica ”, osservando che “la libertà del 1945 e di oggi non ci fu portata in dono, ma la conquistammo, certo

non da soli (quale fu il popolo che da solo vinse la guerra?) ma anche

noi partecipammo alla sua conquista: vi partecipammo con la sofferenza,

il sacrificio, l’olocausto. Non la ricevemmo in dono: questo fu il frutto

più prezioso del secondo Risorgimento nazionale”.

Io aggiungo: Signori degli anni 2000, per carità  NON TOCCATELA  perché la nostra Costituzione è un MONUMENTO di Civiltà da additare a tutte le Nazioni del Mondo!!!

https://www.youtube.com/watch?v=lszelZUAGgI  (Il sentiero)

INCONTRO SULLA “SATIRA” CON GLI ANZIANI DELL’ASSOCIAZIONE “L’INCONTRO”.

 Ringrazio il dott. Giuseppe D’Agostino, vostro dinamico presidente, per avermi, ancora una volta, invitato alla vostra prestigiosa Associazione, che io stimo molto, se non altro perché è stata la prima, nella nostra città, ad interessarsi di cultura, tempo libero ed altre problematiche proprie della terza età, in cui anch’io ho appena messo il piede.
L’argomento che ho scelto è la satira. L’ho scelto perché la satira è divertente, simpatica, popolare.
Che cos’è la satira? Il dizionario enciclopedico Treccani recita: dal latino satùra-ae, e dal tardo latino satira –ae) appunto, è una composizione poetica che rivela e colpisce con lo scherno o col ridicolo concezioni, passioni, modi di vita e atteggiamenti comuni a tutta l’umanità o caratteristici di una categoria di persone o un solo individuo, che contrastano o discordano dalla morale comune.
Non dobbiamo però confondere la satira con l’umorismo e l’ilarità, che sono considerate manifestazioni un po’ volgari.
In parole più semplici diciamo che è un genere letterario e delle arti (disegno, pittura, cinema, teatro) caratterizzato dall’attenzione critica alla politica e alla società, mostrandone le contraddizioni e promuovendo il cambiamento.
Per questo motivo è stata sempre oggetto a violenti attacchi da parte dei potenti: nella storia si ricorda il caso emblematico del demagogo Cleone contro il poeta comico Aristofane che nel 385 a.C. fu arrestato, processato e messo a morte insieme con il figlio; uno dei casi contemporanei fu quando Fanfani si arrabbiò con Enzo Tortora perché in una sua trasmissione ospitò una parodia che lo “sottolineava” e lo fece licenziare dalla Rai.
Rispetto ai tempi abbiamo la satira greca e quella latina; della prima abbiamo appunto ricordato Aristofane, della seconda ricordiamo Orazio, Giovenale, Quintiliano, Petronio, Ennio, ma ce ne sono tantissimi, poiché a Roma la satira ebbe la sua maggiore fortuna.



Poeti satirici li troviamo perfino nel Medio Evo: Guittone d’Arezzo, Jacopone da Todi ( prima della conversione, a proposito di Jacopone, nella settimana Santa vorrei proporvi di leggere “Il pianto della Madonna per la passione del figlio Gesù” che è un gran capolavoro), Petrarca e più avanti nel tempo abbiamo L.B. Alberti, il Machiavelli della “Mandragola”, Parini. E più vicino a noi ancora vi ricordo Foscolo ( che si firmava con lo pseudonimo Didimo Chierico), Leopardi, Belli, Giusti ( di lui voglio ricordare la finezza dell’espressione satirica della poesia Sant’Ambrogio, che molti di noi hanno memorizzato negli ultimi anni di scuola elementare o al primo delle Medie), ed infine Trilussa, (pseudonimo di Carlo Alberto Salustri) poeta dialettale romanesco . Oggi ha maggior fortuna, la satira espressa attraverso la vignetta ( Forattini, Altan ecc) e quella televisiva: “Bagaglino”, “striscia la notizia”. Molto importante quella letteraria espressa da “Il Male”, rivista satirica molto apprezzata tra gli intellettuali di sinistra.
La satira può qualificarsi con molti aggettivi : personale, generica, aspra, acerba, amara, mordace, bonaria (quella di Orazio), sorridente (quella del Parini), parziale ed ancora esplicita.
Ma chi sono questi poeti, scrittori, artisti che dedicano parte di sé alla satira, quale caratteristica personale, intima hanno in comune tra loro?
Ebbene, la satira certamente non è opera di tutti, se non di chi ha e sa di avere, nei rispetti della società contemporanea, quella superiorità di coscienza morale e sentimentale che è la condizione sine qua non perché essa nasca. Il poeta satirico, l’autore satirico, qualunque sia il suo mezzo di espressione ( teatro, vignetta, cinema) è un uomo modesto, temperante, equilibrato, che non conosce la violenza espressiva di tanti “contestatori interessati”, ma il mondo della realtà circostante e del suo segreto pensiero, interessa, sì la sua anima, la incrina, vi disegna l’orma delle sue molte verità, ma non vi affonda, non vi imprime solchi incancellabili e il suo sorriso non sempre è fatto di allegria, ma non è fatto mai di vera e fonda amarezza.
Detto tutto questo, tanto per ricordarci, tra noi, che cos’è la satira e chi sono gli autori satirici, passiamo ora ad incontrarla insieme, qesta simpatica signora ( e come?), leggendovi alcuni brani scritti da me e da Turillo Tucci, in dialetto campobassano. ( Certo, avrei voluto leggervi anche qualche satira di Orazio, di cui pure ne ho portato una con me, ma ho pensato che oggi, forse sono già stato un pochino pesante, ma spero di non avervi stancato. )
Le mie satire sono parole che ho messo in bocca a due simpatici personaggi: Zi’ Maria La Rusciulella, popolana seria ke la lénga longa e ru nase cchiù luonghe, annanzo al qualo nen passa na mosca; e Giuannina Cacciapesce, sua comare e sua spalla. Qualche volta interviene pure Pasquale Mézalénga, marito di Giuannina. Anche Turillo Tucci si affidò ad una donna popolana per le sue satire: a Cènza Pezzanera, per l’appunto: Cènza che ze sfòche. Però, incominceremo con una delle mie satire.
Al termine della lettura mi piacerà sentire da voi quali impressioni, quali ricordi, quali sollecitazioni ha provocato la lettura del brano nell’incontro della giornata, perché di queste giornate poi, senza tornare ad illustrare che cos’è la satira, ne avremo ancora, sempre che voi lo desideriate.

CB 16 marzo 2010

Amore al circolo anziani

una chiacchierata con gli anziani del Circolo “L’Incontro”

Innamoramento e Amore, un binomio antico quanto l’uomo.
L’innamoramento è quel periodo durante il quale una persona, attratta da tutta una serie di elementi: fisici, psicologici, culturali e, come è stato scoperto di recente, favorito da sostanze chimiche prodotte dal nostro organismo, che agendo sul cervello stimolano attrazione e simpatia verso l’altra persona.
L’Amore, invece, è il sentimento che lega due persone che, attratte dall’innamoramento, si sono incontrate, lo hanno verificato, lo hanno consolidato ed approfondito; quindi non solo condiviso ma anche verificato.
Dicono questi versi della poesia provenzale:
Amor è un[o] desio che ven da' core
per abondanza di gran piacimento;
e li OCCHI in prima genera[n] l'amore
e lo core li dа nutricamento.
La verifica appartiene a quel periodo in cui la coppia si dice fidanzata.
Questo, almeno, è l’Amore inteso tra due uomini: intendo dire di un maschio ed una femmina, coppia naturale creata per la continuazione della specie animale ed anche della flora, facendo salve alcune eccezioni tra le piante e una o due nel mondo faunistico, per lo più della famiglia dei pesci.
Spesso il semplice innamoramento viene chiamato Amore; niente di più sbagliato, perché l’amore come ho detto è molto di più.
Adamo ed Eva, secondo la tradizione biblica, sono stati i primi due innamorati, i primi due esseri viventi che hanno conosciuto l’Amore.
A partire da questa coppia, l’amore rappresenta il sentimento più forte che unisce un uomo e una donna.
Ma l’amore ha generato anche il suo contrario l’odio e quest’ultimo guerre, gelosie e delitti. Omero racconta nel grande poema L’Iliade della guerra scoppiata tra Greci e Troiani; mentre storie di gelosie ne è piena la letteratura, qui per semplicità posso ricordare quello di Otello e Desdemona, povera fanciulla che è vittima di Jago, il quale per soddisfare le sue ambizioni costruisce tutta una macchinazione per mettere Otello contro la sua amata; di delitti non ne parliamo proprio quanti sono derivati dall’amore o per questioni d’nore e, qui, voglio ricordarvi quello commesso in Isernia 50 anni fa ad opera di una certa Flora,professoressa di San Severo sedotta e abbandonata, che eliminò con tre colpi di pistola un avvocato di Isernia. Proprio all’uscita dal Tribunale, il cui processo fu celebrato a Campobasso e fu molto seguito, da cui la ragazza ne uscì come una eroina, avendo riscattato “l’onore”.
Ma lo stesso Omero ha descritto l’amore fedele di Penelope a Ulisse, l’amore tenero tra Ettore e Andromaca, l’amore fraterno tra Achille e Patroclo.
Anche i poeti latini parlarono e cantarono l’amore nelle varie sfaccettature, come il poeta latino Ovidio, che nella sua opera Le Metamorfosi ha descritto molte vicende d’amore, tra cui l’amore mancato tra Dafne e Apollo.
Virgilio ci ha parlato dell’amore tra Didone ed Enea.
La prima donna a scrivere poesie d’amore fu Saffo, prima poetessa della storia, che molte ne ha scritte di poesie amorose, giunte fino a noi.
Molti sono stati anche gli amori finiti tragicamente come quello tra Didone e Enea, Achille e Polissena, Tristano e Isotta.
E facendo un salto di molti anni ci soffermiamo, per un attimo, al Medio Evo, alla poesia cavalleresca e al tardo Medio evo, dando un’occhiata a quel periodo storico letterario che nato dal Guinizelli arruola, se così mi è consentito dire, grandi voci tra i protagonisti principali come Guido Cavalcanti, Francesco Petrarca ed il Grande Dante Alighieri: il Dolce Stil Novo.
In questo periodo la donna è tenuta in grande considerazione nel cuore degli uomini e rappresenta il mezzo attraverso il quale l’uomo giunge all’amore.
La figura femminile, infatti, è al centro di tale poetica e ne è quindi protagonista insieme all'amore,sublime sentimento.
Iniziatore del nuovo stile fu il poeta bolognese Guido Guinizelli, che nella celebre canzone "Al cor gentil repara sempre amore" definì quelli che sarebbero stati i canoni della nuova scuola: anzitutto, in un'Italia centrosettentrionale che evolveva in senso cittadino e borghese (fu questa l'età dei Comuni), il concetto della nobiltà come dote spirituale piuttosto che come fatto ereditario e lo stretto rapporto fra la nobiltà (intesa come "gentilezza" d'animo) e la capacità di amare; in secondo luogo l'immagine della donna come angelo, in grado di purificare l'anima dell'amante e di condurlo dal peccato alla beatitudine celeste, che se vogliamo, in un certo senso è giunta fino alla nostra generazione.



Scrive il Guinizelli:

Al cor gentil repara sempre amore
Com’a la selva augello ‘n la verdura,
né fe’ amore anzi che gentil core,
né gentil core anzi ch’amor natura;
ch’adesso com fo’ lucentene fo’ avanti ‘l sole;
e prende amore ‘n gentilezza loco
così propriamente
como calore ‘n clarità di foco.

Foco d’amore ‘n gentil cor s’aprende
Como vertute ‘n petra preziosa:
ché da la stella valor no i discende,
anzo che ‘l sol
la faccia gentil cosa; ecc

Questi concetti ricevettero un approfondimento sia dal punto di vista filosofico sia da quello psicologico, che dava conto con precisione, tra l'altro, degli effetti di Amore sull'anima dell'innamorato.
Qui troviamo Dante Alighieri, il quale all’Amore ha dedicato tutta un’opera “La Divina Commedia”, sì perché la Divina Commedia è un’opera tutta intessuta sul tema dell’amore: da quello terreno sotto gli aspetti più umani ( Paolo e Francesca, Canto V) a quello celestiale a cui arriverà attraverso la sua donna Beatrice, che sarà il mezzo ed il fine per raggiungere il Divino Amore, l’Amore vero, Amore grande che si fa Caritas.
“Nel dare e sol nel dare è il vero amore” dice il poeta. Ma, poi riprenderemo il discorso, se ce ne sarà tempo, poiché mia intenzione è anche quella di leggervi qualche verso.



 Di Dante voglio leggervi questa sua bella poesia :

Tanto gentile e tanto onesta pare
La donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogni lingua deven tremando muta,
e li occhi non largiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core
che ‘ntender no la può chi no la prova:
e par che la sua labbia si mova
un spirto soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: Sospira.
Sentite quanta dolcezza, quale soavità sprigionano questi versi d’amore!
Oggi il mondo cristiano festeggia San Valentino, protettore degli INNAMORATI.

Quando ero un ragazzetto sentivo parlare molto di un certo Rodolfo Valentino, rubacuori italo-americano, famoso in tutto il mondo, e dai più grandi spesso sentivo dire “ quello lì… mi sembra di essere Rodolfo V…”, questa festa degli innamorati era poco conosciuta, date le ristrettezze economiche in cui versava il popolo italiano. Poi, nei primi anni del boom economico, ad opera di una grande casa dolciaria si seppe di San Valentino, festa degli innamorati; io in verità pensai che questo grande rubacuori fosse stato santificato. Ma la cosa mi pareva strana “ Uno che ha fatto soffrire d’amore tante donne può mai essere santificato? Ed allora mi sorse il dubbio e incominciai a porre mano alla enciclopedia . E finalmente scoprii che non si trattava del rubacuori Rodolfo Valentino, ma di un grande Santo: San Valentino da Interamna o da Terni (Nahars Interamna), il quale nacque a Terni nel 176 ca., appartenente a famiglia patrizia , convertitosi al cristianesimo e che nel 197 a soli 25 anni fu fatto vescovo di Terni.

S. Valentino fu grande predicatore e convertitore di anime e riuscì a convertire importanti uomini al suo tempo.
Nel 270 si recò a Roma chiamato da Cratone, famoso oratore greco e latino per predicare il Vangelo e convertire i pagani. Poiché la conversione di tanta gente dava fastidio all’imperatore Claudio 2° il Gotico, lo fece arrestare; ma Valentino non si arrese e tentò di convertire pure l’Imperatore, il quale lo graziò da sicura morte e lo affidò ad una famiglia patrizia.
Morto Claudio, gli successe Aureliano che riprese a perseguitare i cristiani e che lo fece arrestare.
I soldati lo prelevarono e lo condussero sulla Via Flaminia, dove dopo averlo flagellato lo decapitarono proprio nel giorno 14 febbraio del 273, nonostante avesse la venerabile età di 98 anni. Ecco di cosa era capace allora l’uomo!
Oggi san Valentino non è solo patrono di Terni e di numerose altre città e paesi d’Italia e del mondo, ma è venerato dalle tre chiese cristiane: cattolica, ortodossa e anglicana.
Ma perché San Valentino è stato dichiarato protettore degli innamorati? Innanzitutto perché egli amava tutti, era sempre allegro e predicava la pace; aveva convertito moltissime coppie di pagani; ma anche perché prima di morire aveva convertito due sposi.
E questo la dice lunga, altro che Rodolfo Valentino!
Ma anche nell’antichità gli innamorati avevano i loro protettori: i Greci avevano Eros e Venere, ma anche i romani avevano Venere, che fu chiamata Afrodite e Cupido ( l’una era l’elemento femminile, l’altro quello maschile); gli Egizi avevano Mehetueret (vacca celeste).
Certo oggi il concetto d’amore è cambiato: l’amore non è più quel sentimento profondo che ci conduce all’Eterno; sarebbe uno scandalo parlare di questo!
Però non mancano giovani che ancora credono nei principi sani, quelli che vogliono santificare l’amore.
Però nella storia, non sempre le coppie sono state formate dal sentimento nato spontaneamente e molti sono stati i fidanzamenti fatti per necessità, per sistemazione: pensiamo per esempio al Piccolo Imperatore, storia recentemente narrata in un film di successo del regista Bertolucci, dove i protagonisti sono uniti in matrimonio, quasi in fasce; e non è questo l’unico caso!
Nell’antica Roma molto diffusa era la forma di matrimonio chiamata coëmptio la quale, altro non era che una forma di vendita fittizia in cui il padre (pater familias) vendeva la propria figlia per emanciparla al marito, proprio come fanno ancora alcuni paesi africani, però, pure allora il matrimonio era preceduto da un certo periodo di fidanzamento, durante il quale, pur senza imporre particolari obblighi, alla, presenza di parenti ed amici (come testimoni) esso si celebrava e costituiva un impegno reciproco dei fidanzati a volersi rispettare vicendevolmente e già da allora si festeggiava con il pranzo di fidanzamento. Il fidanzato durante la cerimonia consegnava alla fidanzata dei regali più o meno costosi e un anello simbolico, probabile sopravvivenza del vecchio pegno della primitiva coemptio , forma di matrimonio tra patrizi e plebei, soppressa già dal 2° sec d.C., tramandataci da Plinio il Giovane.
Questo anello sia che fosse fatto di ferro rivestito in oro o fatto di oro come le nostre fedi, la fidanzata aveva cura di infilarlo seduta stante al dito sinistro : per questo oggi noi chiamiamo il “dito vicino al mignolo della mano sinistra” (anularuis) anulare.
Dopo il fidanzamento la donna andava a vivere un anno con il marito e dopo di che il loro matrimonio diveniva stabile e, nella casa, viveva alla pari con il marito.
Non mi prolungo oltre sul matrimonio dell’antica Roma, perché dovrei fare alcune precisazioni ed il discorso diventerebbe troppo tecnico, ma devo dire che dopo il 3° secolo, anche grazie all’opera del cristianesimo, poi il fidanzamento si è avuto in maniera come l’abbiamo conosciuto noi ai primi del secolo scorso.
Una volta erano i genitori a trattare i fidanzamenti e spesso contro la volontà dei figli, per cui poi si verificavano le fughe, i tradimenti, gli odi nelle coppie; però la maggior parte dei matrimoni funzionavano perché c’era un’altra morale a formare l’uomo; e poi ad aiutare l’afflatamento contribuivano pure i tempi, che erano quelli dei costumi castigati, per cui quando la scatola e lo zolfanello veniva poi messo l’un vicino all’altro scoccava la scintilla e quasi sempre anche la fiamma!
Ma torniamo al discorso. Le famiglie favorivano gli incontri tra amici organizzando festicciole in casa, cogliendo le occasioni più varie: le feste per l’uccisione del maiale, l’ultimo di carnevale con la rottura della pignatta, un compleanno; dove tutto si svolgeva sotto l’occhio vigile dei genitori, i quali durante le danze progettavano in mente loro i probabili accoppiamenti e i giovani, dal canto loro, ponderavano quale potesse essere il tipo o la tipa che più aggarbava.
E quando erano già fidanzati, con il cavolo potevano amoreggiare! C’era sempre di mezzo la mamma, il papà, il fratellino, la sorellina, proprio come ci descrive Renato Carosone in una sua bellissima canzone “Napoli a spasso”.
Però spesso i fidanzati trovavano il modo di farli fessi, giacché pure molti erano i casi di nascite settimine!
Oggi ci si innamora e disinamora con facilità, con leggerezza. I giovani dicono che si vivono storie d’amore; sì, gli amori sono storie, non sono più legami profondi che ci legano per tutta la vita. E se è vero che al settimo anno una volta si viveva la crisi, oggi le crisi sono tante e spesso si vivono al settimo mese! e così si passa da una storia all’altra con disinvoltura, per motivi spesso banali come per es. perché oggi il sugo non mi è piaciuto o perché non sono stato/a coccolato/a abbastanza.
Quindi senti dire spesso in giro quando due si lasciano “ho avuto una storia..” ma tutto è passato; ora esco con un'altra o con un altro ovviamente “, perché sia lui che lei la pensano così.
Ma può ridursi l’amore, quel nobile sentimento sul quale dobbiamo costruire la vita nostra, quel sentimento solido, grande a cui dovrebbe ispirarsi l’Umanità tutta per vivere in armonia “in questa bella famiglia di uomini e di animali e di piante” come definì un poeta questo mondo terreno ?
L’amore una storia, un’avventura... Avventura che spesso lascia ferite profonde in chi proprio non c’entra nulla: i figli.


 

La nostra vita, tra alti e bassi, è stata tutta tesa verso l’amore vero, che in effetti si traduce anche in patto di responsabilità, perché è di notevole importanza sociale. Io dico che:

L'amore è il sentimento più bello e intenso..
L'amore dona la felicità agli innamorati e agli amanti;
L'amore consola gli afflitti e i disperati;
L'amore fa diventare generosi gli avari.   

L’amore avvicina a Dio e fa apparire bella qualunque giornata che deve passare.
L'amore riempie meravigliosamente  una vita; che rincuora gli ammalati e gli emarginati;
L’amore addolcisce la disperazione e gli abbandoni.

Ma che cosa sostituisce l'amore quando l'amore non c'è?
C'è l'affetto e la solidarietà per gli altri che sono sentimenti nobilissimi e utili per tutti gli uomini. Quindi Caritas.
Un altro bellissimo sentimento è l'umiltà, che rende la vita semplice  e buona, come fu la vita di San Francesco d'Assisi.
Ammiro l'umiltà di San Francesco che  rivoluzionò la sua vita e donò  speranza  e  gioia anche agli uomini anonimi, poveri,  umili. Credo che ancora oggi l’umiltà e l’affetto donino bontà e sollievo agli uomini che vivono ogni giorno come se fosse  il giorno più bello della loro vita.
L’umiltà rende la vita quieta e serena come sono i credenti così magnificamente descritti dal Manzoni nella sua stupenda poesia "Il Natale":

 "L'angel del ciel, agli uomini
 Nunzio di tanta sorte,
 non dei  potenti volgesi
 alle vegliate porte;
 ma fra i pastor devoti,
 al duro mondo ignoti,
 subito in luce appar."

Ma quale è il segreto per stare insieme tanti anni? Non so se io posso dirvelo perché voi lo sapete meglio di me, ma riflettendoci su io dico la pazienza, saper perdonare, saper ascoltare, e saper coltivare.: l’amore si coltiva: è come una rosa, bella profumata e... spinosa! .
Saper coltivare così come si coltiva l’amicizia: “ K’u dà e k’u tié la mecizia ze mantè; k’u tié e senza dà la mecizia ze ne va”, quant’è bello questo proverbio, possiamo applicarlo anche all’amore, solo che cambia l’oggetto dello scambio, che è più sentimento che materia.
“Lamore non è bello se non è litigarello” se è vero questo ecco che l’intelligenza ci deve far ricordare il proverbio precedente “ K’u dà e k’u tié …” e qui cambierei l’amore ze manté”.
Avete litigato? e non state lì a tenervi il muso per una settimana! Il più intelligente stenda per primo la mano: con una battuta allegra, con una carezza , con un bacio e tutto si riconcilia ed al resto il signor Letto penserà come Dio comanda!
Mi son venuti alla mente per caso questi proverbi, ed ho pensato a mettere insieme degli altri che riguardano l’amore, la donna, il matrimonio:
L’amore fa paré belle pur’u ciucce.
L’amore brucia, la mecizia renfresca; tutte e ddù fanne menì la pulmunita.
L’amore tann’è bèlle quann’è stuzzicarèll.
Quanne ddù ze vuonne, ciente ‘nce puonne.
Bèlle e brutte ze ‘nzorene tutte.
Bellezze ‘nzi a la porta, vertù ‘nzin’a la morte.
Bona maria, bona la via!
Chi tè marite viecche, càreca pepe!
U matremonie scatena sette demonie.
‘A femmene è com’u carevone: s’è stetate te tègne, s’è ‘ppecciate , te coce.
‘A femmene è com’a gatte: scéppe e fuje.
‘Allina ca nne féte sèmpe pullastra è!
Allina che nne ruspa ha già ruspate!
Amante fatte, amice perdute.
A védeve che ze ‘rremarite, ‘a penetènze nenn’è funite!
Quanne la femmena arriva a trent’anne, mette le sperune cumm’e u galle.
Quanne la femmena vo’, fa remané ‘ncantate pure u lupemenare.
Quanne la femmena nne vo’, manche u riaule ce po.
Quanne si’ gevenettèlla ti’ ‘a lenquela na pegnatella, quanne si’ mmaretate cacce a lenquela dènt’a pignate.
Se la zetèlla sapesse le guaje de la maretata, ze rumbarrije le cosse e starrija a la casa.
U marite princepe u fa la mugliera.

U prim’anne a core a core, u seconde a cule a cule, u terze a cauce ‘ngule.
U prim’anne spusate o mmalate o carcerate.
Vale cchiù nu marite sciancate che nu frate regnante.

 Ed ancora questi in italiano:

Grande amore, gran dolore;
Il primo amore non si scorda mai;
L’amore di carnevle, muore a quaresima;
L’amore è cieco, ma guarda lontano;
L’amore fa passare il tempo, ma il tempo fa passare l’amore;
L’amore non si misura a metri;
Amore senza baci è pane senza sale;
L’amore è come la pioggerella d’autunno: cade piano piano, ma fa straripare i fiumi;
Amore che nasce da malattia, quando guarisce passa via;
L’amore è una pillola inzuccherata;
Amore onorato né vergogna, né peccato;
Chi soffre d’amore, non sente pena;
Amore e Signoria, non vogliono compagnia;
Per amore della rosa si sopportano le spine.

Mi avvio a chiudere ricordando che molte sono le collezioni di lettere d’amore lasciate da uomini e donne famose.
Però c’erano pure tanti giovani che non erano capaci di scrivere una lettera, o magari solo perché non avevano avuto occasione di doverla scrivere, cosa che accadeva spesso, invece, quando partivano per la ferma militare.
E questi come facevano? Ricordate quel film in cui Totò fa lo scrivano e con lui c’è Vincenziéllo, suo figlio : il film è Miseria e nobiltà , ebbene Totò è in strada con il suo bancariello, in attesa che passi qualcuno che si faccia scrivere una lettera per guadagnare qualche spicciolo. Quel mestiere nella prima metà del secolo scorso era abbastanza diffuso e allora un signore pensò bene di scrivere un libro di lettere a cui potessero ispirarsi i soldati e le altre persone innamorate.
Il libro si chiama Il segretario galante, io ne ho una copia rara e l’ho portata per mostrarvela e poi, se ne avrete voglia vi leggerò qualche lettera di dichiarazione d’amore.
Però adesso voglio leggervi qualche mia poesia inerente al tema.
Elenco delle poesie lette che possono essere consultate nelle sezioni di poesia dialettale e poesia in lingua:
La ‘ntratura, Tanemente, tu, a giugne, Nu ddù, Vulesse, Incanto, Ed è sera, Sera d’auste

S.GIUSEPPE al Circolo tra rito e devozione
di UgoD’Ugo

 
Il culto di San Giuseppe è molto diffuso nel Molise: sono più di una trentina i comuni per i quali la ricorrenza del 19 marzo rappresenta una data di particolare solennità religiosa, tra i quali i più importanti sono: Riccia, San Martino, Toro, Gildone, Venafro, Casacalenda, Castelbottacio, Castellino, Lucito.
Esso ha origini storiche molto antiche, come risulta dagli atti di un convegno tenuto a Riccia il 25 marzo 2003, dalle relazioni di Mauro Gioielli, studioso delle tradizioni popolari, e di Mons. Salvatore Moffa, storico e critico dell’Osservatore Romano e figlio della terra di Riccia, i quali recarono documenti che fanno risalire il “ rito ” anteriormente al 1600.
Sono molte, pure, le nazioni che hanno eletto San Giuseppe loro Patrono.

 La figura del Santo nei Vangeli

I Vangeli ci danno di San Giuseppe solo qualche rapido cenno e solo i cosiddetti Vangeli dell’infanzia, di Matteo e Luca; gli altri si limitano ad indicare il mestiere di falegname, riferito a Gesù (Marco 6,3) o la sua paternità (Giovanni 1,45-6,42).
Narrando della nascita di Gesù, Matteo riferisce queste notizie a proposito di Giuseppe. Maria è fidanzata a Giuseppe. Prima che vada a vivere insieme, si ritrova incinta, per opera dello Spirito Santo. Giuseppe che è un uomo giusto, non vuole ripudiarla per non esporla ai rigori della legge e decide di rinviarla in segreto in famiglia. Ma ecco che gli appare in sogno l’angelo del Signore, che gli svela il mistero di quel concepimento.
Al suo risveglio, Giuseppe fa come gli ha ordinato l’angelo e tiene con sé la sposa.
Quando Gesù nasce a Betlemme, al tempo del re Erode, l’angelo del Signore, sempre in sogno, informa Giuseppe che Erode sta cercando il bambino per ucciderlo, perciò gli ordina di prendere con sé Gesù e sua madre, di fuggire in Egitto e di restarvi fino a nuovo avvertimento.
E quando l’angelo gli annuncia che Erode è morto ( 4 a.C.) e che può finalmente tornare nel paese di Israele, Giuseppe torna, ma non si stabilisce in Giudea, dove regna Archelao, che gode di una pessima fama, ma va a stabilirsi in Galilea, a Nazareth.
Qui termina il racconto di Matteo, che non accenna né al censimento, né ai pastori, né alla stella, né ai magi; tutte circostanze di cui, invece, narra Luca. ( I Vangeli apocrifi ci dicono che, quando nasce Gesù, Maria ha 15 anni e che vive con Giuseppe già da 3 anni ).
Al ritorno a Nazareth, Gesù dovrebbe avere circa 2 anni.
Degli anni successivi passati in quella località non sappiamo altro che i due episodi narrati da Luca: quello relativo alla crescita del bambino ( Luca 2,40).
Di Giuseppe si tace. Perciò gli esperti arguiscono che egli sia morto proprio durante i trenta anni della cosiddetta “ vita nascosta di Gesù “.


San Giuseppe nella letteratura.
Sulla base di queste poche notizie, alcuni scrittori sono riusciti a costruire un intero romanzo sulla figura di S. Giuseppe. Uno dei più belli è quello di Pasquale Festa Campanile “ Per amore, solo per amore “ Milano Bompiani 1983, che ci narra di Giuseppe e Maria. Come se fossero una coppia di giovani moderni, rendendo appieno la dimensione del legame che li univa; un romanzo breve, da leggere tutto d’un fiato, in cui la vita dei due sposi è vista in un parallelismo col vivere del mondo di oggi, anche se Giuseppe, al posto di possedere l’alfetta spider, possiede il cavallo e non l’asino.
Uno dei più interessanti sotto l’aspetto della ricostruzione storica, invece, è il lavoro di Ferruccio Ulivi, scrittore particolarmente attento alla dimensione etica e religiosa dell’uomo Giuseppe, “ un analista dell’anima” come lo definisce Ferdinando Castelli in una dotta recensione apparsa su “ Civiltà cattolica “ del 2 maggio 1998.
Dalla lettura del romanzo viene fuori la figura affascinante di un uomo dal carattere forte, che intuisce di vivere una vicenda più grande di lui e che per questo accetta anche quello che non può capire, sapendo che ciò avviene per volontà di chi non mente e non inganna.
E questo è il significato del titolo del libro Come il tragitto di una stella. Giuseppe di Nazareth: sogno, amore e solitudine Cinisello Balsamo (MI) ed.S:Paolo 1997; titolo fatto di parole che Ferdinando Ulivi mette in bocca a Maria, espressioni che ci sembrano degne di essere attentamente meditate.
Dice dunque Maria, rivolgendosi al suo sposo, nel tentativo di svelargli almeno in parte dell’insondabile mistero che vivono: “ Non siamo noi che scegliamo la strada da percorrere. C’è chi lo fa in vece nostra infinitamente meglio. L’uomo, o la donna, si domanda perché lo abbia fatto. Ma la risposta non ci compete; la coscienza deve seguire sicura, anche se ignora il cammino.”
Ed il Castelli nella citata recensione commenta: “ Come la stella segue il suo tragitto, così Maria e Giuseppe percorrono la strada che Dio ha loro indicato, in fiduciosa obbedienza, nonostante il buio e gli ostacoli.”
Degli altri autori, per brevità non parlerò, ma cito comunque Luigi Maroldi ( Vangeli Apocrifi )1996, recensito e commentato da Ernesto Renon.


 

 La storia di Giuseppe falegname

Tra i Vangeli apocrifi c’è uno conosciuto col nome di “ Storia di Giuseppe falegname “, che riferisce delle notizie e dei fatti, da cui viene fuori una storia non troppo elaborata, ma ugualmente dai tratti ben definiti, che tutto sommato in linea con l’immagine che la tradizione ci ha tramandato di lui e, quel che più conta, con alcune pratiche e consuetudini che la devozione popolare ha fatto proprie e tramandate nel giorno della festa del Santo.
Questo vangelo fu scritto tra il IV e il V secolo, ma conosciuto in Occidente solo dopo l’VIII° secolo. Sono circa 32 pagine ( scritto in boarico, dialetto copto del basso Egitto, e pubblicato nel 1876; in saidico, dialetto copto dell’alto Egitto; in arabo, pubblicato nel 1712, questa versione si ritiene sia stata tradotta dal greco). In queste poche pagine vediamo che Giuseppe svolge in modo eccellente il suo mestiere di falegname o carpentiere ( tektòn). Quando è il momento si sposa. Rimasto vedovo con sei figli ( 4 maschi e 2 femmine : Giuda, Giuseppe, Giacomo e Simone; Lisia e Lidia), proprio a lui che ha la fama di essere un uomo giusto e pio, è affidata Maria, che al tempo delle nozze, ha soli 12 anni.
La Chiesa non riconosce questa notizia, ritenendo che i nominati figli di Giuseppe fossero i cugini di Gesù perché l’ebraico ha un solo termine per indicare sia i fratelli che i cugini e collaboratori, ma il greco antico ha due termini distinti per indicare i fratelli ( adelfòi ) e i cugini ( singhnetòi ).
Sentire che Maria aveva solo 12 anni quando andò sposa a Giuseppe, oggi farebbe scandalo, ma fino al secolo scorso era normale, specie tra gente di stirpe regale; addirittura furono fatti gli apparentamenti fin dalla più tenera infanzia; e Giuseppe apparteneva a stirpe regale, essendo egli della discendenza di Giacobbe e di Davide.
Il testo narra pure dello sconforto di Giuseppe nel vedere, al suo ritorno dal luogo dove esercita il lavoro, Maria incinta; il superamento dello scoramento, dopo l’intervento del “ principe degli angeli “ San Gabriele, la sua sottomissione al volere divino.
Non soffre mai di malattie e conserva sempre la mente lucida e un vigore giovanile, fino alla morte che arriva alla bella età di 111 anni!
Tuttavia dobbiamo dire che questi vangeli pure non possono essere pienamente attendibili, possono contenere delle inesattezze e fantasie perchè sono stati scritti alcuni secoli dopo, pur ritenendoli utili per tutte le notizie che la Chiesa ha preso a piene mani per tramandarci la santità di Giuseppe.
E sono proprio questi scritti che evidenziano il coraggio col quale Giuseppe recepisce il ruolo di custode di Gesù e Maria.
Dalla lettura di queste pagine, infatti, viene fuori la figura di un uomo pio, devoto a Dio, con una grande forza morale, giusto. Colpisce inoltre il suo attaccamento al lavoro, il suo senso della giustizia, il suo comportamento di fronte alla morte e il suo abbandonarsi fiducioso nelle mani del Padre.
Specie sulla Morte c’è una bellissima preghiera che Giuseppe rivolge a Dio, entrando nel Tempio, a Gerusalemme.


Ora veniamo ai momenti salienti del culto.

Da quanto, seppur brevemente, accennato, emergono alcuni tratti restati alla devozione popolare: Innanzi tutto il lavoratore, l’artigiano, che trova nel lavoro una ragione di vita; l’onestà perché lui ha vissuto sempre del proprio lavoro e non ha voluto mai vivere del lavoro degli altri. Questo è uno dei motivi per cui Pio XII, nel 1955 istituì la festa di san Giuseppe artigiano il 1° maggio, in coincidenza ( o in concorrenza? ) con la festa universale dedicata al lavoro e ai lavoratori.
Quindi abbiamo San Giuseppe Patrono dei falegnami, dei lavoratori,degli Economi e dei Procuratori legali.
Poi il modo fiducioso in cui il cristiano vive l’esperienza della morte: una esperienza di paura, in certi momenti anche di angoscia e terrore, ma mai di disperazione per la fiducia nella misericordia del Signore. Anche per questo, forse, è venerato come patrono della buona morte e al suo nome ( oltre a quello di S. Sebastiano e San Rocco che proteggono dalla peste e dalle epidemie) si riconducono alle moltissime Confraternite della Buona Morte, nate per assistere i morenti.
Quindi San Giuseppe è anche Patrono dei Moribondi.
Infine, la disponibilità ad aiutare gli altri: fornendo loro cibo e quant’altro occorre, poiché è scritto sempre nella sua storia:” Chiunque nella tua memoria e del tuo nome, avrà dato cibo ai miseri, ai poveri, alle vedove e agli orfani faticando con le sue mani, per tutti i giorni della sua vita non sarà privo di beni… -ed ancora- Chiunque in tuo nome avrà dato da bere un bicchiere di acqua o di vino a una vedova,ecc. ecc. io lo affiderò a te affinché tu faccia ingresso con lui nel banchetto dei mille anni”.
E questa è la fonte della istituzione del rito della tavola di San Giuseppe, largamente celebrata in Molise e nel resto d’Italia ( dalla Sicilia al Veneto).
Riti dello Sposalizio e del Manto e della Tavola
Un po’ di date. -    I primi a celebrare la festa il 19 marzo furono i monaci benedettini (anno 1030 ), seguiti dai Servi di Maria ( anno 1324) e dai Francescani ( anno 1399 ).
Venne infine promossa dai papi Sisto IV e Pio V e resa obbligatoria nel 1621 da papa Gregorio VI.
In Canton Ticino e in tutta la Svizzera e in Spagna questo giorno è considerato festivo a tutti gli effetti. In Italia, dopo la soppressione di alcune feste e solennità, sono giacenti in Parlamento, da alcuni anni, proposte di legge per il ripristino della festività.
In molti paesi, specie una volta, i festeggiamenti in onore del Santo iniziano il 23 gennaio, che è il giorno dello Sposalizio del Santo.
Questa festa iniziata in Francia nel 1517 è stata introdotta anche da noi ad opera dei Francescani con San Gaspare Bertoni nel 1537 , appunto il 23 gennaio.
Una volta, nel giorno dello Sposalizio, era previsto lo svolgimento di una festa popolare vera e propria, con tanto di processione, banda e fuochi d’artificio ( S. Martino in P. 1870/1880) ( Doganieri – Storia di San Martino).
Per l’occasione nelle case dei cittadini più devoti venivano allestiti altarini, a capo dei quali era esposto il quadro con l’effigie di S. Giuseppe e la Madonna; si preparavano dei caratteristici dolci, come quelli che tradizionalmente si costumavano ai matrimoni e veniva distribuito il pane benedetto come avveniva ed avviene per S.Antonio, Santa Elisabetta, S. Rocco e S. Nicola.
Dal 21 al 23 gennaio, nelle stesse case veniva recitato il Rosario e il cosiddetto “ Manto di San Giuseppe”, un particolare omaggio che consiste nella recitazione di una serie di preghiere, dell’Inno a S. Giuseppe e di altri canti religiosi. Infine venivano offerti i dolci e il pane, come poc’anzi detto.
Il Manto doveva essere ripetuto per 30 giorni di seguito, tanti quanti erano stati gli anni vissuti dal Santo in compagnia di Gesù.
In molte comunità questa festa è scomparsa.
Particolarmente viva e sentita resta la festa vera e propria del 19 marzo, che contempla, in molti paesi, la benedizione e la distribuzione del pane, l’allestimento e la visita degli Altarini, il pranzo della Sacra Famiglia.
Festa animata da un profondo sentimento religioso, che anima tutti i preparativi per la festa con la recita del Rosario e del Manto, la celebrazione della Messa e un desiderio di rinnovamento nell’accostarsi ai sacramenti della Confessione e della Comunione. Così la festa diventa non solo occasione dello stare insieme, ma anche mezzo per riflettere sulla vita del Santo e sul significato della manifestazione.
Dal 10 marzo inizia la novena di san Giuseppe, fino alla vigilia del 19.
E già da allora iniziano i preparativi per l’allestimento degli Altarini. Si prepara il pane per fare la mollica per il condimento della pasta, il riempimento per i calzoni e, laddove si usano le “screppelle” o “ sfringi”, si incominciano a preparare anche queste leccornie.
Dalla vigilia e fino a tutto il 19 marzo si visitano gli Altarini. La sera della vigilia vengono benedetti gli altarini e tutte le vivande, ancora crude, e messe in bella mostra su una tovaglia bianca, che serviranno per il pranzo.
Tutte le persone che andranno a visitare gli altarini salutano “ Gesù e Maria” e i presenti rispondono “ Gè sempre”, ossia “ Gesù sempre “ o come altri interpretano “ oggi e sempre”. A tutti viene offerto il calzone o/e le “screppelle” o “ sfringi”.
Infine, sul tardi, quando tutti i visitatori si sono ritirati, familiari ed amici si raccolgono in preghiera, recitano il Rosario e i canti, accompagnati anche dal suono di strumenti o della fisarmonica ed infine cantano l’Inno a San Giuseppe.
L’Inno è composto di 28 versi ottonari, distribuiti in sette quartine, è molto bello e riassume tutti gli attributi che la tradizione attribuisce al Santo, che non a caso, dal 1870 è Patrono della chiesa universale .
( Ascoltiamo ora, da Mario De Lisio alcune preghiere e canti che la tradizione vuole in onore di San Giuseppe e poi diremo ancora qualcosa sulla tavola)
Diciamo ancora qualcosa sulla Tavola di San Giuseppe.

Il pranzo, nei decenni passati, poteva essere di “magro” o di “carne”, nel dialetto nostro, molisano, “scampërë o campërë; in un caso o nell’altro i piatti principi erano e sono i legumi ( fagioli, fave e ceci)  conditi con l’ottimo olio di oliva molisano e cotti nella famosa “ pignata” di terracotta. Poi si distribuiscono sottoli o sottaceti ( carciofi, asparagi, ed altre composte accompagnate con uova soda  e bocconcini di fiordilatte),poi il riso con il latte, pasta con le alici o con il tonno o con il baccalà, pasta con la mollica; poi baccalà fritto, polpette di tonno  e fritti vari con la pastella (cavolfiore, zucchine, fette di peperone ecc.)e laddove il pranzo era di carne (in  alcuni paesi del basso Molise) al posto del pesce si preparavano pietanze a base di carne. Ma già da anni, non si ha più notizia di questo tipo di pranzo, come non si ha più notizia dei pranzi di 19 portate ( Castellino del Biferno e S.Martino in Pensilis) a meno che le portate non contenessero una sola varietà di ciacun manicaretto di verdure di contorno, nel qual caso potremmo dire che oggi  nel complesso  le varietà sono aumentate; in San Martino in P. ho prova che fino alla prima metà del XX° secolo alcune famiglie offrivano il pranzo con alcune pietanze a base di carne.

Oggi, dappertutto si servono 13 portate e tutte di magro. Oltre a quelle già nominate si distribuiscono frittelle di cavolfiore, finocchi mollicati ed altre verdure condite nei modi più svariati. Tra gli antipasti, una volta, grande considerazione aveva la fellata di arance, detti “ portogalli “ o “ cetranguele “, conditi con sale e olio. 

Infine  frutta secca ( mandorle, noci, fichi secchi) e i dolci: il famoso Agrodolce contenente mandorle, i famosi calzoni ripieni di pasta di ceci; mi risulta che a Castellino tra i dolci fanno anche i caragnoli, che altrove costumano a Natale; in alcuni paesi non mancano i sfringi o scruppelle ( pasta fritta in olio d’oliva e  cosparsa di zucchero ); il  tutto accompagnato con ottimo vino, da bere in quantità  moderata.

         Principi della Tavola sono: S. Giuseppe, la Madonna e il Bambino, scelti tra i poveri. In alcune località la sacra famiglia è formata dalla Vecchia, dal Vecchio e dall’Angelo.

Le pietanze vanno preparate in ginocchio e durante la preparazione si prega;  le portate vanno servite a piedi nudi, in silenzio.

Ogni membro della Sacra Famiglia, al termine, riceve tutto ciò che è avanzato dal pranzo e una pagnotta di pane benedetto.

         In alcuni paesi, Castelbottaccio, Riccia, Guardialfiera al termine del pranzo, dopo che la Sacra Famiglia è uscita dalla sala, si ricevono amici e conoscenti e si offrono alcune portate tipiche del pranzo.

         Ancora una curiosità: forse non tutti sanno che l’amatissimo Beato papa Giovanni XXIII aveva accarezzato l’idea di farsi chiamare Giuseppe, ma fu sconsigliato per tenere i nomi della Sacra famiglia, fuori della tradizione papale.

         In molte località si usa fare i fuochi di San Giuseppe, i quali sono storicamente più antichi della Tavola.  Di questi se ne potrebbe parlare con una manifestazione appropriata in occasione del Natale o di Sant’Antonio abate.

          

         
Ugo D’Ugo

Elenco delle pietanze che si costumano a Riccia:

Giardiniera con olive, uova sode e fior di latte;

Polpettine di tonno con verdure in pastella fritte;

Pasta con la mollica;

Pasta con sugo di pomodoro oppure con sugo di baccalà, o di tonno o di alici;

baccalà fritto con peperoni ripieni;

 alici fritte e verdure condite o in pastella;

 mandorle in agrodolce o con vino cotto;

tarallo semidolce che si usa bagnare nel vino;

 zuppa di fagioli condita con olio extravergine d’oliva;

zuppa di lenticchie con olio extravergine d’oliva:

zuppa di ceci con olio extravergine d’oliva;

polpette di pane e baccalà;

baccalà mollicato al forno;

cime di rapa stufate o condite con olio crudo, accostate in qualche portata;

riso con il latte;

calzone ripieno con pasta di ceci (quello tipico di Riccia con pasta sfoglia );

torta con pan di spagna e crema.

Vita di Condominio al circolo Incontro
(Chiacchierata fatta al circolo degli anziani “L’Incontro” di Campobasso il 27/4/2011)

Il condominio, pur se termine antico, derivante appunto dal latino cum dominium, ha assunto importanza rilevante in questi ultimi due secoli; questo perché nella società moderna rilevante e complessa è divenuta la vita all’interno delle città.
San Girolamo nel suo Chronicon nell’86 a.C. scriveva “ descriptione Romae facta inventa sunt hominum CCCCLXIII milia”., quindi 463 mila abitanti contava la città eterna 2097 anni fa. E appena 20 anni dopo Lucano riferisce che Pompeo, chiamato a dirigere l’annona, nel ’57 a.C. seppe organizzare gli approvvigionamenti per 486.mila abitanti.
E’ ovvio che già da allora si poneva il problema dell’abitazione di una gran massa di funzionari, soldati, commercianti, per cui l’Impero romano era costretto a porsi il problema di regolare la vita cittadina, ponendo regole per la costruzione degli insediamenti e dettando anche norme di comportamento all’interno della stessa Urbs, ricca di 1782 domus e 46872 insulae, che ospitavano ben 700mila abitanti , come risulta censito dal Curiosum nelle statistiche tratte dai registri “Regionari” della seconda metà del secondo secolo.
Gli alloggi dell’antica Roma erano costituiti da domus e da insulae.
La domus era la casa dei ricchi, come i nostri villini; l’insula era l’equivalente dei nostri palazzi.
Le insulae erano costruzioni isolate, per l’appunto isole, da essa deriva l’odierno termine isolato,composto di più piani e alti anche più di 21 m. Al piano terreno c’erano i magazzini e le botteghe dette tabernae, le quali avevano un soppalco che costituiva l’abitazione dei più poveri o degli schiavi e dei liberti alle dipendenze dei padroni.
Ai primi piani abitavano i padroni o le persone più abbienti, come funzionari dello stato; ai piani altissimi la gente meno abbiente; all’ultimo piano i poveri e spesso erano anche adibiti a bordello. Gli appartamenti si chiamavano cenacula, i quali erano dati in affitto. Poiché la maggior parte di queste insulae erano di proprietà esclusiva dei Patrizi, difficilmente costoro vi abitavano, in quanto disponevano quasi sempre di lussuose domus.
Ai tempi di Augusto regnava una certa anarchia nella costruzione di questi complessi abitativi, per cui erano sorti dei veri grattacieli, ma a porre un freno alla anarchia edificatoria, provvedeva Nerone, sì proprio l’imperatore che era stato accusato di aver incendiato la città, il quale stabilì per legge che le insulae non potevano essere costruite con più di 4 piani. Il limite si rendeva necessario porlo perché i fabbricati spesso erano soggetti a crolli e incendi, con morti ,specie a danno degli inquilini dei piani alti.
Dopo di lui, Traiano stabilì che i piani potessero essere massimo cinque.
Alla fine del IV secolo le strade erano tutte affiancate da insulae e poiché Roma aveva superato il milione di abitanti, pur essendo poco estesa, immaginate quale fosse la confusione per le le strade e i vicoli delle insulae, per cui il legislatore pose mano anche ad alcune regole di comportamento civile, stabilendo anche che i carri che trasportavano le merci non passassero nelle ore in cui i loro rumori avrebbero disturbato il riposo degli abitanti.
Le insule venivano date in gestione ad un Amministratore con il quale il proprietario stabiliva un contratto di gestione:L’amministratore pagava al padrone l’equivalente del fitto degli appartamenti del primo piano ed il resto lo gestiva a suo comodo con l’onere di provvedere alla manutenzione dello stabile. Con questo tipo di contratto il proprietario si disinteressava dell’amministrazione, però l’amministratore faceva ottimi affari, poiché subaffittava le stanze a più persone o nuclei familiari, realizzando forti guadagni.
Finora abbiamo fatto un escursus per risalire all’origine del vivere in comune, ma non ancora incontriamo la comunione che è all’origine del condominio e questo perché abbiamo detto che le insulae appartenevano quasi sempre ad un solo proprietario.
L’uomo non è eterno e non può portarsi all’altro mondo i suoi averi, allora accadeva che alla morte del proprietario succedevano i figli , per cui l’insula veniva divisa tra più eredi e questo non sempre era possibile farlo in parti uguali, per cui la divisione veniva fatta pro quota divisa o per pro quota indivisa. Ecco che nasce la comproprietà, che assume le caratteristiche proprie simili a quella giunta ai tempi nostri.
La comproprietà, che attinge alle regole della comunione, prevede che tutti i comunisti, così si chiamano i proprietari della comunione, hanno gli stessi diritti di godere a modo proprio della cosa e parimenti possono opporre agli altri il diniego a fare certe cose da loro non condivise.
Ora immaginate cosa ne sarebbe di un edificio in cui hanno diritto su di esso cinque e più proprietari , specie se essi non sono d’accordo sul godimento o sulla necessità di riparazioni?
Sarebbe il caos e l’immobile finirebbe in rovina.
Poiché la proprietà ha una sua funzione sociale di rilevanza per la collettività, lo Stato non può restare insensibile di fronte alla insensatezza dell’uomo, per cui il legislatore ha previsto, nell’ultimo secolo, una serie di leggi, e, con l’entrata in vigore del nuovo Codice Civile, approvato con R.D. 16 marzo 1942 n.262 e pubblicato nella G.U. n°79 del 4/4/1942, di dare una legislazione ad hoc al Condominio, inserendovi regole importanti che lo governino: La divisione delle quote in millesimi, l’Assemblea dei proprietari, in cui essi proprietari sono rappresentati per la quota di proprietà a loro spettante, l’Amministratore,la cui nomina è obbligatoria quando i partecipanti sono almeno quattro, il Regolamento di condominio.
Attraverso questi elementi, il Condominio ha vita giuridica.
L’Assemblea nomina l’Amministratore e delibera sulle spese e sul godimento delle cose comuni; l’Amministratore rappresenta legalmente il Condominio e provvede alla manutenzione ordinaria e alla gestione delle spese occorrenti e lo rappresenta in giudizio nelle liti attive e passive.
Le funzioni, i limiti e le deliberazioni sono stabilite dagli art. 61 e segg. delle
Preleggi o Norme di attuazione al C.C. e dagli art.1117 e segg. del C.C.
Finora ho detto pressappoco che cos’è il Condominio, quale la sua storia. Ma non è questo il tema specifico di cui intendo parlarvi, ma la mia intenzione è quella di dirvi qualche parola su come vivere felici ( se così si può dire ) in un condominio, specie che negli ultimi tempi l’uomo ha perso la bussola, è divenuto più arrogante, più maleducato.
Spesso questa decadenza dei valori morali e civili si riversano proprio sui più deboli, appunto gli anziani, i quali a volte per cause da loro indipendenti sono più insofferenti alla maleducazione.
Ed allora è bene che si facciano delle riflessioni su come comportarci per vivere felici nel condominio e, se il caso, di come difenderci senza perdere la calma dagli attacchi degli arroganti, dai furbi, dai disonesti, spesso autori di soverchierie.
E vivere felici nel condominio è possibile, in quanto ci viene incontro per questo un andante biblico molto efficace: Non fare ad altri ciò che non vuoi si faccia a te.
Questo andante lo dobbiamo sempre tenere presente dentro di noi, ponendoci la predetta domanda tutte le volte che stiamo per fare una azione.
Chi si attiene fermamente a questo principio è una persona educata e potrebbe anche fare a meno della legge.
Ma poiché è impossibile avere un mondo di educati, i popoli hanno deciso di mettere al di sopra dell’uomo la Legge, la quale stabilisce regole di comportamento a cui devono uniformarsi tutti, nessuno escluso.
La legge stabilisce pure cosa si intende per buon padre di famiglia, a cui spesso essa si riferisce.



Detto ciò adesso parliamo di come è lecito comportarsi, in via generale nella vita condominiale, e per quali motivi dobbiamo comportarci in un modo o nell’altro..
Primo-
L’art.1117, tra l’altro dice: sono proprietà comune il suolo, le fondazioni, i muri maestri, le scale, i portoni d’ingresso, gli anditi, i cortili ecc. e più avanti cita alcuni servizi in comune come gli impianti di ascensore, di illuminazione, di distribuzione idrica e di riscaldamento, di autoclave ecc.
Tutte queste parti sono di proprietà comune, per cui noi dobbiamo rispettarle nell’interesse non solo nostro, ma di tutti.
E l’art.1118 elenca i diritti e i doveri dei proprietari delle porzioni di piano rispetto a queste parti che sono indivisibili.
Quindi noi, rispetto a queste parti, dobbiamo comportarci in modo educato: ad esempio: non dobbiamo scrivere sulle pareti, non dobbiamo sporcare le parti comuni, dobbiamo fare in modo da non arrecare disturbo agli altri, non dobbiamo depositare oggetti ingombranti sui pianerottoli e sulle rampe delle scale ( facendo salvo qualche pianta che serve ad abbellire, ma posta in modo da non intralciare il libero passaggio).
Non dobbiamo sottrarci al pagamento delle spese di manutenzione.
Quando facciamo il bucato dobbiamo fare in modo che i panni siano ben strizzati e fatti sgocciolare nella vasca e poi stenderli, per non arrecare disturbo ai piani sottostanti.
Quando curiamo le piante sul balcone, dobbiamo fare in modo che non cadano foglie e terriccio ai piani inferiori o, peggio, sulle persone che transitano sulla via pubblica.
Un altro argomento che spesso genera conflitto in condominio è la propagazione dei rumori. E qui la legge parla di normale tollerabilità, che è rappresentata dall’uomo medio, cioè da colui che non è troppo irritabile né troppo accondiscendente.
Quindi non tenere molto alto il volume della TV, dei grammofoni ed altri strumenti sonori, avendo cura di abbassare il volume dopo le ore 22 della sera.
A proposito di ore serali, le leggi speciali considerano ore notturne dalle 22 alle 6 del mattino, con una differenza: tra le 22,00 e le 24,00 si possono fare alcuni servizi non rumorosi come, ascoltare la TV a basso volume, rammentare, ricamare, stirare; gli stessi servizi si possono fare tra le 5,00 e le 6,00 del mattino. Mentre dalle ore 24,00 alle ore 5,00 sono le ore notturne per eccellenza e nessuna attività è consentita all’interno della casa.
Ricordate che anche durante le assemblee non bisogna usare un tono alto di voce, bisogna sapere ascoltare gli altri e, se ne sarà il caso, chiedere di intervenire esponendo con garbo le proprie opinioni e le proprie richieste, senza farsi coinvolgere in polemiche che creano solo confusione. Non fare, come mi è stato riferito che avviene in una palazzina popolare, dove spesso si minaccia tra loro di venire alle mani. Ma questo caso, spero proprio che sia uno di quelli limite.
Bisogna pure tener presente che un buon condomino ha anche degli obblighi verso l’amministratore:
Comunicare all’amministratore il proprio domicilio ogni qual volta dovesse cambiare ( in caso contrario si presume che il domicilio è sul luogo della proprietà);
Comunicare le generalità del nuovo proprietario, in caso di trasferimento di proprietà;
Comunicare all’amministratore le avarie riscontrate nell’ambito del condominio come: lampade fulminate, interruttori difettosi o malfermi, anormalità agli impianti, in particlare a quello di ascensore e riscaldamento, stato di pulizia delle scale, dei corridoi e dell’androne, in particolare quando questi possono essere causa di danno alle persone per presenza di liquidi oleosi o in caso di gelo. Quindi non fare orecchi da mercante, pensando sempre che ci sia un altro a farlo;
Evitare di discutere direttamente con gli altri condomini su argomenti condominiali che possono essere causa di discussioni e liti tra loro, ricordando che un buon amministratore deve adoperarsi sempre pe ristabilire l’ordine e la pace tra i condomini.
Quindi possiamo concludere che se i rapporti tra condomini sono improntati alla educazione e al rispetto reciproco, vivremo in pace, felici,; eviteremo di rivolgerci agli avvocati, risparmiandoci le ulteriori arrabbiature che si assommeranno in conseguenza di una giustizia malata, non funzionante perché lenta ad arrivare, tanto che alla fine essa stessa non capisce più chi ha ragione e chi ha torto.
Spero di non avervi annoiato e di avervi reso cosa utile parlarne e, prima di congedarci, sono a vostra disposizione per chiarire i vostri dubbi, per darvi suggerimenti sui vostri problemi condominiali.

 P.S. Gli anziani hanno posto molti quesiti sui problemi dei loro condomini.
Delle domande rivoltemi, la maggior parte erano inerenti alla rumorosità dei vicini, specie studenti e stranieri, al comportamento di proprietari di cani, non sempre conformi alla buona educazione, specie per quanto riguarda la rimozione delle feci nei cortili comuni e sui marciapiedi condominiali.

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