Breve saggio sulle opere letterarie in lingua di Ugo D’Ugo
                                 Di Filippo Leo D’Ugo
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L’ultimo lavoro narrativo di Ugo D’Ugo, “Il segreto di Sara e altri racconti”, edito per i tipi della Goliardica editrice di Trieste nel 2009, ISBN 978-88-88745-14-5 mi ha indotto a fare alcune riflessioni sulle sue opere letterarie in lingua italiana. L’autore è noto per la sua propensione ad usare il vernacolo sia in poesia, in cui ha ricevuto apprezzamenti di critica da diverse parti, noto al pubblico molisano già da gran tempo, sia nei racconti brevi. Questo testo mi ha colpito per diverse ragioni e sotto l’aspetto narrativo e sotto quello editoriale.
Sotto il primo profilo ho rilevato una dissonanza tra lo sviluppo del primo racconto e gli altri, tredici in tutto, più brevi.
L’ampiezza e la struttura del primo racconto, costruito come un vero e proprio romanzo, narra la storia avvincente e struggente di una giovane donna in stato interessante, Sara, perseguitata in quanto riconosciuta di razza ebraica, che riesce a sfuggire ai tedeschi grazie alla accorata comprensione del popolo umile del Molise, che la nasconde accuratamente fornendole generosamente, senza promesse di ricompensa, tutti gli aiuti di cui aveva bisogno, rischiando la ritorsione delle autorità e dei tedeschi che in molte altre parti non era mai mancata, permettendole di sopravvivere all’immane e dissennata tragedia della seconda guerra mondiale: una storia profondamente umana, che dà il titolo all’opera, lavoro serio, vero e proprio romanzo, storico, breve e popolare, degno certamente di una pubblicazione autonoma e i restanti tredici racconti brevi, che nell’insieme occupano lo stesso spazio, nei quali l’autore stesso appare uno dei personaggi che racconta in prima persona vicende e fatti della propria esperienza di vita. Anch’essi, a mio giudizio, sarebbero stati degni di una pubblicazione autonoma.
Nei tredici racconti brevi l’autore coglie, con vivo senso realistico, la profonda umanità di alcune figure veramente esistite tra le tante incontrate nella sua ricca esperienza di vita di uomo, di cittadino, di lavoratore, di studioso. In essi è dato cogliere aspetti narrativi più distesi, di respiro minore, ma non per questo meno interessanti, della sua poetica, più vicina alla narrativa ad esempio di un Domenico Rea di “Spaccanapoli” e del “Diario napoletano”, per i contenuti umani espressi, profondamente condivisi, che a mio giudizio risultano più umani, meglio tratteggiati di quelli, scavati con maggiore profondità.
Qui lo spirito del narratore appare più disteso e variegato. A volte è teatrale e ridanciano, alla maniera plautina, come in “I  gemellie la strega di Colle D’Anchise”, vicenda legata ad un grossolano errore della madre, per una dimenticanza da cui conseguono indagini e decisioni curiose, dolorose e infine per fortuna rimediabili; a volte è boccaccesco, con conclusione tragica, non dissimile dalla moda della narrativa gialla, così diffusa ai nostri giorni, come in “Curiosità assassina”, in cui una donna, morbosamente affascinata dalla grandezza degli organi maschili di un individuo, viene indotta al tradimento che, il marito indagatore, riesce a scoprire e a punire in un momento di raptus omicida; altre volte si fa personaggio lui stesso immergendosi nelle vicende narrate come interlocutore dei suoi personaggi, condividendo le pene, le vicissitudini, i sentimenti di coloro che soffrono.



 Un gruppo di racconti ha una valenza maggiore perché più profondamente sentiti e sofferti, come “Zazà”, “Gramegna”, “Lisa”, “A piedi nudi”, “Il vate di Monacilioni” dove non mancano spunti di alta poesia, di umana e accorata comprensione, di sofferta partecipazione alle pene di quegli sventurati che soffrono non per propria nequizia, e di umana riprovazione per chi inavvertitamente dileggia il prossimo, fino alla disperazione, (mobbing espresso con piena coscienza nella storia del Vate di Monacilioni e in quella di Gramegna), nei quali non mancano, né quadri di fattura naturalistica non dissimili dai meravigliosi paesaggi di Constable e di Fattori, (pag. 117, 137, 161, 172, 182, 162), né slanci poetici, altamente lirici, propri della sua migliore produzione poetica (pag. 123, 124, 147), né caratterizzazioni particolari affascinanti di essenziale fattura (pag. 128), né riflessioni di significato universale (pag. 121, 157, 174).
Nel suo linguaggio stringato, solitamente asciutto, strettamente aderente ai fatti che narra, centrato sulla gente per cui scrive, gli bastano poche parole per comporre un quadro o tratteggiare un personaggio come un abile pittore saprebbe fare con pochi tratti del suo miracoloso pennello (ricordo ad esempio la figura di Zazà pag. 123, di Gramegna pag. 128, di Lisa pag. 147).
In questi racconti non manca neppure la satira leggera come in “Giovanni”, un cicisbeo a cui l’autore si rivolge raccontando la fine cruenta di un personaggio che ha avuto esperienze trasgressive non dissimili dalle sue; né la confessione, umana e sincera, specificatamente personale, di rilevanza religiosa, come in “Un’ora in Paradiso”, dove racconta di se stesso quando, ancora ragazzo, fu sul punto di morire per un’infezione di tifo; né spunti dichiaratamente religiosi, come in “Il profumo del Santo” dove, assieme alla moglie, riconosce la presenza protettrice, nella sua stanza, di San Padre Pio da Pietrelcina, per una temuta malattia della figlia e né la vivace protesta per una scuola in cui l’alunno non viene tenuto nella giusta considerazione umana e civile, di avente diritto al rispetto per la sua sensibilità e per la sua spiccata individualità, come nel “Professoriello”, dove ricorda una sua personale esperienza scolastica incresciosa nella quale il lettore non sa se è più spiacevole l’azione riprovevole del professore irrispettoso della dignità dei propri alunni, vendicativo e intimidatorio, didatticamente impreparato e strafottente o quella dell’alunno per la sua reazione altrettanto decisa e irriverente; né quella più spiccatamente giornalistica, di sapore folcloristico, come in “Trebbiatura” e in “San Martino e la corsa dei carri”.
Alcuni racconti sono addirittura commoventi. Basta ricordare tra tutti la figura sofferta di Gramegna, un poveraccio che la guerra ha rovinato, la moglie tradito ed il popolo dileggiato fino alla morte per il suo comportamento da barbone e quella di Lisa, una donna poco più che adolescente, ingravidata immeritatamente dal suo fidanzato che la tradisce rovesciandole addosso il disprezzo della sua classe di borghese colta e che riesce ad avere la forza di non accettare un matrimonio riparatore da un marito che non l’ama.
In questi racconti s’alza alta la voce del narratore a protestare contro chi vive la vita senza il rispetto dei sentimenti e della dignità del prossimo, contro i dileggiatori della povera gente, contro gli avvocati e i giudici insensibili e irrispettosi della spiritualità di chi incappa nelle loro reti, contro i politici privi di ideali e di scrupoli, strafottenti dei problemi di tutti, e persino contro i preti indifferenti e bestemmiatori. Lo sguardo del narratore non perde mai di vista i valori più genuini del popolo serio, semplice, dedito con scrupolo alla famiglia e al lavoro e del suo diritto al rispetto e ad una dignitosa considerazione.



Dal punto di vista editoriale il testo, pur corredato di una copertina efficace ed attraente, non ha ricevuto una cura adeguata, della quale era pur degno, visto alcuni errori evidenti come, per citarne alcuni, quelli di stampa, vedi ad esempio, la pagina 21 che per essere letta bisogna rovesciare il libro, - tale è la copia in mio possesso - la poca importanza data agli “a capo”, la penuria di pagine bianche, i caratteri di stampa piuttosto piccoli, la rilegatura che si sfalda facilmente.
Dove l’autore raggiunge vette di maggiore rispetto, non diversamente da quelle raggiunte nel suo primo romanzo “Il prezzo dell’amore”, edito dalla stessa casa editrice nel 2003, ISBN 88-88171-64-9, di più pregevole fattura, è il romanzo breve “Il segreto di Sara”.
Questo lavoro è un romanzo in quanto, in una trama più o meno articolata, narra la storia di un insieme di personaggi dal loro primo incontro fino alla morte, con dovizia di particolari sulle singole vicende, sui loro rapporti con la società e con l’ambiente, in un intreccio di fatti altamente umani e significativi.
E’ storico perché l’autore non solo inserisce i suoi personaggi in un’epoca e in un luogo preciso (la narrazione comincia dal 20 ottobre del 1943 e si protrae per circa venti anni, non senza un excursus sulla storia anteriore dei personaggi e sul clima politico-culturale di quel tempo), ma anche perchè ricostruisce le tensioni nazionali e internazionali di allora e quelle più specificatamente paesane tipiche del profondo Molise, del quale, con reiterate descrizioni di panorami, con la citazione dei nomi geografici realmente esistenti, pur dando un nome fittizio al luogo del rifugio, ci consente di circoscrivere al massimo la zona dove si svolge ogni singola vicenda narrata.
E’ un romanzo breve perché tutta la trama si conclude in poco più di cento pagine, ma che avrebbe potuto avere uno svolgimento anche di più ampio respiro ed è popolare perché tale è l’assunto dichiarato esplicitamente dall’autore durante la presentazione dell’opera ai futuri lettori, ma anche perché la sua poetica è tutta rivolta a manifestare la profonda e sofferta vita delle persone più umili, che qualunque storia finge di ignorare. Non per altro il narratore preferisce usare il vernacolo in molti suoi lavori narrativi e poetici.
L’autore è figlio dei grandi maestri della nostra letteratura nazionale. Si muove sul solco manzoniano per l’abbondanza di spazi poetici narrativi che brillano qua e là di luce propria nel corso della sua narrazione, su quello “vagamente verghiano” e verista come faceva notare la Frattolillo nella premessa al primo romanzo, su quello di Vittorini, di Tozzi, dello stesso Iovine che hanno segnato lo spirito della narrativa del novecento e in genere sul Neorealismo moderno, letterario e cinematografico.
Sono sicuro che qualunque buon cineasta dei nostri tempi sarebbe in grado di realizzare con i due romanzi citati film di grande effetto umano e di sicuro rispetto.
Qui, come nel precedente romanzo or ora citato, l’autore tocca i vertici più alti della sua narrativa sia per l’accorata passione con cui presenta i suoi personaggi, da quelli perseguitati come Sara e suo figlio Samuele, a quelli che li proteggono coscientemente mettendo a repentaglio la loro stessa vita come il Parroco del paese e l’ostetrica Licia, fino a quelli meno coscienti dei pericoli che corrono ma fortemente motivati dall’affetto e dalla considerazione che le persone a loro raccomandate meritano per le loro virtù strettamente personali e la profonda simpatia che ispirano.
I due romanzi hanno uno svolgimento storico pressoché parallelo. Le vicende narrate avvengono nel Molise, in tempi pressoché uguali (Antonio Tracanna del primo romanzo potrebbe essere benissimo un coetaneo di Samuele, il figlio di Sara, o uno dei figli dei contadini che giocarono con lui in quel luogo isolato del Molise, raggiungibile solo a piedi o a dorso di mulo) in un ambiente cioè che Rita Frattolillo, nella premessa al “Il prezzo dell’amore”, ancora negli anni cinquanta-sessanta, qualifica come “arcaico e segnato dalla miseria”.
Codesta studiosa notava in quel libro la presenza di un assunto: “L’ignoranza produce mostri”, “Senza istruzione è impossibile vivere da uomini degni di questo nome” per cui tutto il romanzo si svolge come una tesi esplicitando tutte le conseguenze che ne derivano fino al necessario riscatto e alla definitiva vittoria del bene sul male.
Anche il “Segreto di Sara” parte da una premessa: “Le paure, quando diventano profonde, patologiche, producono effetti che condizionano a lungo la vita di chi le soffre” per cui producono difese i cui effetti sfiorano persino l’assurdo. Per questo motivo il figlio Samuele, in seguito e inaspettatamente, scopre di essere una persona che risulta inesistente nella popolazione del mondo (non molto dissimile dal Fu Mattia Pascal di Pirandello,sebbene motivato da un intento diverso: quello di conquistare la sua identità di essere anagraficamente vivente e di ottenere i diritti di cittadinanza di uno Stato) perché la madre, ossessionata dalla necessità di nascondersi, per evitare al figlio e a se stessa un possibile arresto con conseguente persecuzione, nasconde la sua origine ebraica, volutamente omettendo di denunciarne la nascita nei registri anagrafici.
L’autore fa di Sara il suo capolavoro, una giovane donna, rimasta sola con il figlio, in un mondo che ha falciato, per inaudita insania, tutta la sua famiglia: la madre, il padre professore universitario, il fratello medico votato alla cura dei miseri, lo sposo, i parenti, gli amici. Giganteggiano con lei tutti coloro che, dopo l’immane catastrofe, riescono ancora a ritrovare le loro ragioni di vita.
I personaggi molisani citati che vivono in grazia di Dio, le loro famiglie, come pure quello principale di Sara, sono circonfusi di un’aria di sacralità che mi fa pensare alle opere pittoriche del divino Millet.
Il narratore non omette di toccare grandi temi come quello dello stato d’Israele o altri di risonanza universale che riguardano il destino degli uomini, la necessaria e doverosa libertà di fede religiosa e di pensiero senza la quale l’uomo non è più tale, ma che non leda la dignità e il prestigio degli altri, il ripudio della dittatura, il diritto al lavoro, la riprovazione del delitto d’onore, la piaga dell’emigrazione, il ripudio della guerra e i grandi temi della persecuzione la quale grida vendetta davanti a Dio e agli uomini, della sofferenza, della solitudine, della solidarietà umana.
In questo romanzo breve, come nel precedente più corposo, non meno rappresentativo della umanità e della bontà del popolo molisano, l’autore erige un monumento imperituro a personaggi, apparentemente privi di importanza e di rilevanza sociale, come “zio Angelo”, e “zia Carmelina” , ma anche al Parroco del paese e all’ostetrica Licia, per la loro bontà, la loro umana comprensione, la loro generosità, la loro dedizione agli altri senza richiedere alcuna ricompensa.
Grazie, Ugo, per averci dato un’opera che fa tanto onore al nostro Molise.

Napoli 26 aprile 2009

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