Per "Il canto della ciavola" hanno scritto
Apprezzamento Avv. Michelino De Lisio per “ Il canto della ciavola “
Campobasso 21 gennaio 2009-01-31
Caro Ugo
Ti ringrazio del tuo ultimo libro di poesie “ Il canto della ciavola “ che gentilmente mi hai dato da poco fa incontrandovi nei pressi del Tribunale.
Qui, aspettando il mio turno di lavoro, curioso e desideroso, ne ho lette solo alcune.
Ma è come se le avessi lette tutte.
Non dovrei, perché potrebbe sembrare che scantoni, come, per la verità, spesso mi capita e mi è anche stato fatto notare.
Ma, questa volta, guarda caso, la prima che ho letta è stata “ Agli eroi del Sei Busi “, che mi ha indotto a fare qualche riflessione in più e a non esitare a manifestarle.
Perché, per me Monte Sei Busi è sacro e lo sento nel sangue.
Tutti i giorni, come se mi genuflettevo ne rileggevo e ne ripetevo il nome in fine dell’epigrafe di una lapide attaccata ad una parete di un corridoio a poca distanza da un’aula del Convitto Nazionale Mario Pagano, dove io studiavo e che da alcuni anni, incanutito, ho cominciato a rifrequentare come aula di udienza.
Su quel Monte, infatti, anche mio padre – ancora adolescente – fu gravemente ferito quando,appena dopo una sanguinosa e furiosa battaglia gli toccò a sorte tra gli altri soldati che come lui erano scampati alla morte per miracolo, di andare a prendere l’acqua con la ghirba insieme ad un suo cugino, Enrico, in una sorgente non molto distante per non morire di sete nella trincea infuocata dal solleone.
Appena usciti dalla trincea – ci raccontava – strisciandosi per terra tra morti, feriti e lamenti, furono investiti da una rabbiosa raffica di colpi di fucili sparati dalla vicina trincea nemica. Il braccio destro bucherellato dalle schegge era rimasto penzolante; una pallottola gli aveva trapassato la mano sinistra e un’altra lasciato una lunga cicatrice alla testa mentre stava avvicinando una grossa pietra alla fronte per ripararsi dai colpi.
Enrico, invece, gli giaceva accanto in una pozza di sangue.
Ancora lucido, invocava la Madonna delle Grazie, protettrice del paese, venerata e custodita in una Cappella in cima alla collina, dove i giovani che partivano per il servizio militare e gli emigranti, dopo essersi spogliati dei pochi beni per pagarsi le spese di viaggio, si recavano come tuttora avviene, a pregare e a invocare la sua protezione ascoltando l’ultima Messa.
Un’odissea dolorosa senza fine, quella dell’emigrazione, non da meno di quella degli immigrati di oggi che noi osteggiamo in mille modi e sopportiamo con aria di sufficienza e di disprezzo.
C’è poco da ridere o ironizzare. C’è modo e modo! Specie se si è cristiani.
Nonostante fosse ferito e sfidando ancora la morte, lui, mio padre, cercò di soccorrerlo, ma, Enrico, lucido di mente, con un fil di voce fece appena in tempo a sussurrargli: -Vai, vai, Pasquale, pensa a te, a salvarti, che per me è finita.! Dillo pure a mamma!-
Rotolando giù per la china raggiunse l’ospedaletto da campo dove tutti i giorni venivano effettuate amputazioni, anche se non necessarie, per evitare cancrene.
Ma, mio padre, si rifiutò di farsi amputare un braccio e dopo una lunga odissea e mille traversie da un ospedale all’altro, finalmente uscì fuori pericolo.
Da piccoli gli alzavamo il lungo braccio e la manona perché mio padre era un pezzo d’uomo, longilineo e , scusami della fonia, tutto d’un pezzo.
Avrei voluto somigliargli. Avere almeno la sua forza morale.
Con le dita ripercorrevamo la pista delle cicatrici. Quella alla testa era la più lunga, che mamma carezzava con dolcezza e qualche lacrima.
Chiedo scusa della digressione. Ma – lo ripeto – appare chiaro come sia inevitabile conseguenza delle tue poesie e con esse in perfetta sintonia.
Difatti, la seconda, che ho letta, è stata “ Al dilà “ , che tu hai scritto ad occhi chiusi. Tutto assorto nella contemplazione dell’infinito.
Un abbandono esistenziale, mistico a fronte del quale resto pensoso e assalito da tanti sentimenti e immaginazioni che io stesso non mi so spiegare.
La prima è che lo stesso titolo sembra disvelare la tua sofferenza per le ingiustizie e per le guerre – ripeto, guerre – e tracciare in profondità, come un vomero, un solco per segnalare, al credente, la via che conduce al Cielo.
Una paligenesi, dunque. Una visione finale mistica che pacifica e appaga.
Intanto per fugare il mio timore di non voler apparire a tutti i costi convenzionale, eccessivo, complimentoso, mi limito a dirti che le tue poesie mi sono piaciute.
O, più semplicemente: sono belle!
E, del resto, chiunque altro le legga, credo, umilmente, che non possa, o non potrebbe esprimersi diversamente da me.
Il mio, anzi, non è né un commento, né una interpretazione, perché, dopo tutto, le tue poesie sono calde, estremamente chiare e autentiche.
Sono, cioè, il perfetto riflesso della tua personalità, del tuo modo di porti – e disporci – di fronte al tormento della ricerca e della spiegazione del mistero e della frustrazione del suo fallimento. Un tormento che il poeta, a differenza del filosofo, umanizza e traduce romanticamente in sentimento.
Un dono, una virtù, questa, particolare dell’artista, qual è il poeta e che tale tu sei. Capace, cioè, di far emergere dal profondo il suo vissuto, complice compiacente di farci rivivere anche il nostro.
Come, appunto, mi sta accadendo.
Il poeta – ripeto- è un artista, e, come gli altri artisti: il musicista, lo scultore, il pittore, ecc., è l’interprete del sentire universale.
Ed è per questo – insisto- che in esso ci si ritrova.
Per conto mio mi resta difficile distinguere un poeta da un altro essendo tutti, più noti o meno noti, accomunati da un unico sentire. Al di là del quale è questione di stile, di forma e di mezzi usati per rendere più eleborata, preziosa, suggestiva, coinvolgente e compiacente l’immagine.
Basta soffermarsi per un attimo a meditare, tra i tanti, su quelli a noi più vicini e più di tutti a te: Tonino Armagno, Giovanni Cerri, Nicolino Di Donato, Nicola Iacobacci, per rendersi conto della comunanza della loro sofferenza per quella altrui. Del nobile fine e della penetrante sensibilità nell’avvertire che “ la vita è una manciata di minuti dispersi dal soffio dell’Eterno “.
Non da meno è la comunanza dell’ansia che vi investe, e ci trasmettete, che le cose non vanno, come, invece, desiderereste e vivamente vorreste che andassero.
E qui riappare incombente, stagliato all’orizzonte, Monte Sei Busi. Riproponendo e giustificando l’interrogativo del perché della vostra ribellione, che facciamo nostra, di fronte alle guerre, ai genocidi, ai massacri, ai campi di concentramento, agli stermini di massa, alle tragedie! Allo stravolgimento dello sfruttamento fatale dei poveri oppressi con la cinica e falsa pomozione ideale, etica ed economica degli oppressori. Della lampante ipocrisia di questi ultimi malamente dissimulata. Che seminano mine e fanno piovere dall’alto giocattoli esplosivi e bombe al fosforo, o di uranio impoverito e tanti altri mezzi micidiali. Del loro dire e non dire, del dire e non fare, dell’apparire e del non essere.
Miserevoli furberie. Mezzucci ingannevoli se vero è che di fatto: “ A ‘uerre nenn ze ferme!
Così nei suoi Sonetti annota N. Di Donato.
Tutto e sempre a vantaggio della felicità e del benessere “ della Signora Civiltà. Una beffa, una gran figlia di puttana.”
E ben propagandata fino all’omologazione, a divenire costume cultura e religione dei popoli.
Altro che santi, martiri ed eroi, commemorazioni,convegni,riunioni e quant’altro.
Al poeta, pertanto, viene da chiedersi: ma chi sono i terroristi!
Da quale parte stanno! Chi ingabbiare a vita.
Per un pizzico di onestà e ragionevolezza la coscienza si ribella al pensieo degli schiavi, o meglio, degli uomini, delle donne stuprate e bambini rapiti nei paesi e nei mari del sud del mondo. Legati e ammassati sottocoperta, gettati a mare se morti nei lunghi viaggi e non benedetti perché selvaggi e infedeli. Oppure se superstiti venduti come schiavi nei mercati dei paesi colonizzatori. Così detti, per ironia della sorte, civili. Del commercio degli organi dei ragazzi rapiti, arruolati ed armati. Delle donne e delle ragazze stuprate.
Fatti ed eventi di fantasia se non fossero storia, che accecano gli occhi. Ferite che si toccano con mano.
Spine, spine e sempre spine ai fianchi. Secondo una efficacia tua definizione.
Che sia così – e non sono io solo a dirlo, seppure ne ho piena coscienza – ce lo ricordano e ammoniscono anche i poeti e nostri amici dianzi ricordati, che nella stessa tua maniera, lo ripetono e confermano.
N. Di Donato, in punto, mi sembra il più esposto quando, nei suoi “ Sonetti “, in vernacolo che, se tradotti, non rendono appieno la loro essenza ed efficacia, per la loro stessa immanenza, dove per nulla rassegnato, con uno scatto iroso e rabbioso con le sue mani ci strappa dalla faccia la maschera dell’ipocrisia.
E levamece de’ nbacce e ll’uocchj u vele!
Nu’ séme manche l’ombre dell’umane.”
Oppure quando, sinceramente rattristato, si chiede se la mamma di Enrico sa:
“ n” qual u camp de bettaglie
è muort’ u figlie. Chi ne dà netizie?!”
E alla fine del suo sfogo, soddisfatto e con un lucente sorriso liberatorio che lo distingue, come a volerci ringraziare della nostra condivisione sembra chiederci:
- Ma è così o no!?
E conclude:
- Che preame se Die nen ce sente, stà lentane? –
Tutto, ovviamente, per le ingiustizie commesse contro la povera gente “ dai figli di puttana “.
Purtroppo, la devo smettere con questi riferimenti per non stancare e non apparire enfatico. Rassicuro, però, che sono dati per scontati e compensati con l’affetto e i miei sinceri pensieri anche quelli degli altri amici.
Voglio solo chiarire, per ultimo, che riflessioni simili a quelle finora esposte si ritrovano nel nostro dire quotidiano in modo più deciso e aperto, oppure più sommesso per una radicata paura che ci hanno iniettato già nel seno materno e dal quale ci strappano e ci trascinano, impotenti e supinamente sottomessi, da generazione in generazione, ma irrimediabilmente amareggiati e per nulla rassegnati.
“ Zitto, che c’è il nemico che ti ascolta!”
E tu pure sembra di esserne vittima quando, quasi stanco e disgustato, con la valigia in mano, come mi hai confessato – ma io sono un “boccaperta” incurante dei gravi mali che ti affliggono, ad occhi socchiusi ti ancori al periscopio dell’anima con la speranza di svelare il mistero di questo infinito andare , e alla stadia per ricercare le cose passate nelle onde del mare.
Lasciala, la tua valigia!
Un imbianchino, seduto su dei barattoli di colori, beatamente mangiando un panino durante la sosta e pulendosi la gola polverosa con una birra, osservando il sole che dal balcone spalancato inondava d’oro la stanza pulita, tutta bianca, richiamando la mia attenzione con un largo gesto di mano:
“Uhn, guarda quanto sole! Io dico che Campobasso sarà la città più bella del mondo! “
Lasciala, lasciala la valigia!
Che la vaporiera ancora fischia dietro la siepe e sferraglia il treno che tu hai scelto e preso per correre, correre senza sosta, senza arrestarti. Per raccogliere fiori bianchi tra siepi di biancospini e fiori alpini tra fiancate di monti vicini e lontani. Comunicarti con la natura illuminata dal sole di giorno. Avvolta nell’ombra sotto la volta del cielo stellato di notte.
L’apostolo poeta ha ancora debiti e impegni da assolvere di altro genere.
Non di certo quelli dell’abbassamento del solaio e della piattabanda.
Ti ricordi?
Ciao, ti sono grato e ti abbraccio.
Michelino De Lisio
Lettera dell’avv. Giuseppe BUCCI
Larino 23 aprile 2008-05-26
Carissimo Ugo,
“ Il canto della ciavola “ mi ha deliziato!
Ti invidio!!!
Perché non è stato dato anche a me il dono della poesia che riesce a far cogliere un fiore in un dolce sorriso!
Bravo, Ugo, proprio bravo, il giudizio, se lo tieni per tale, di un fraterno amico che ti stima da “ Nustalgija de la Fota “ e come ti considerava mio fratello Tommaso, che continuò a recitare la poesia da lui più riuscita e che tu, grande cuore, gli dedicasti!
Mi auguro di leggere altre prima del mio volo che diverrà più leggiero.
La più bella di tutte?
“ Il tuo sorriso “ che so a memoria.
Grazie sempre, Ugo, ed un fraterno abbraccio.
Aff.mo Peppe
da: EUROMAGAZINE - Giornale telematico.
«Il canto della ciavola» di Ugo D’Ugo di Domenico DONATONE
Quando la poesia esprime un mondo senza spandersi per il mondo
Esistono poeti la cui poesia ti fa venir voglia di non giudicarla, ma di sentirla solamente per quel giusto che esprime, senza avallare conflitti o faide tra critici, senza innescare interpretazioni eccessive su una poetica. Una poesia che è talmente ordinaria e lineare nella sua poetica che il primo passo da compiere verso di essa non sembra essere quello di cercare di capire di interpretare di rivedere o di negare quello che si legge, ma di accogliere quel lirismo pacato, emblema di una leggerezza, come quel fiume di sentimento comune che scorre nelle vene degli uomini. Una poetica che testimonia il tentativo, in parte ideale, in parte tangibile e verificabile, di trasformare l'esperienza poetica nella sua metafisica nudità, in un'esperienza di comunicazione umana e civile, dove il nucleo emozionale dell'ispirazione letteraria si perpetua nel sogno del lettore, realizzando il destino della poesia stessa: quello d'incontrarsi con gli altri. È il caso di un poeta conosciuto inaspettatamente, che appartiene ad una terra che ci accomuna (me e lui), il Molise, ovvero Ugo D'Ugo. Ugo D'Ugo è che cerca se stesso, un nome che si ripercuote sul cognome e sembra fare filologia su di sé, ricerca del verbo sul verbo: Ugo D'Ugo. Ugo D'Ugo ha al suo attivo vari libri, tra cui si ricordano Nustalgija de la Fota (1985); Le trascurzie de Maria la Rusciulella (satire, 1985); Il Molisano giocoso (2005) e Il prezzo dell'amore (romanzo, 2003). L'ultimo suo lavoro è una raccolta di poesie in lingua dal titolo Il canto della ciavola (Nocera editore, 2008). In questa raccolta egli canta i motivi più profondi dell'animo umano, stabilendo che il confronto con il prossimo passa attraverso un "io" che si staglia sulla pagina come resoconto di una realtà dalle sfaccettature acute. Ugo D'Ugo si potrebbe quasi dire che è un poeta sereno, nonostante i richiami alla realtà siano imminenti e taglienti, nonostante egli cavalchi l'idea di un resoconto del mondo conforme al consenso che si deduce andando in giro per le strade, dialogando con la gente. In lui non c'è traccia di significante ma solo di significato. La sua strategia poetica è quella di riunire in figure poetiche leggere, in un linguaggio snello e cadenzato, tutto l'apparato intenso del sogno e profondo della realtà, con un metodo del verso che si coglie come forma etica d'immediato impatto con la sopravvissuta scioltezza del genere lirico. Come nel caso della poesia Paese mio: «Nell'attesa della sera | ho provato a contare le case | che s'aprono sulle morte strade. | Case basse di umidi ciottoli
case basse di umide volte, | case terse da gocce di pianto. | Di bambini ne abitano pochi, | altrettanto ho contato di giovani. | D'uomini veri? Son rari | scampati al viscido legno | errante per prode lontane. ||» C'è questo mondo nelle poesie di Ugo D'Ugo che è un mondo disperso, i cui pezzi sono altrove, e questa poesia, come innestata su di una pianta che muore, non riesce a spandersi in quel mondo che canta. In D'Ugo c'è molto di Pascoli e molto di Ungaretti: di entrambi egli accoglie la lezione decadente ed umoristica, lo scrivere versi come fossero piante (Pascoli), nutrito da questo canto della "ciavola", che altro non è che una varietà d'uccello del genere corvus (simile ad un corvo o ad una cornacchia); e l'immanenza di un sentire che si esplica ovvio nella reale costrizione sentimentale del mondo, in quel restringimento del cuore che verga parole come fossero ormai le sole possibili, le sole rimaste e pronunciabili (Ungaretti): «E immerso nella penombra | come acero inaridito | aspettando l'approdo. ||» Questa poesia è limata su un costante confronto dovuto all'inerzia e all'ipocrisia che sostiene l'impalcatura dei massimi sistemi; e allora il poeta si scioglie, preferisce sciogliersi, nel senso che preferisce non essere affatto ricercato, ma di modulare un canto che si allinea su quella ricerca che fu di Quasimodo, di Ungaretti, di Cardarelli, di Pascoli. Una poesia vissuta con la limpidezza delle immagini e con la forza dell'osservazione lirica. Il segnale evidente di un giudizio che non va dato ma solamente afferrato, è insito in uno stato primordiale di ricerca degli aspetti più scoperti del mondo, nella fame di esprimere un mondo nonostante il mondo si rifiuti di essere espresso, di essere accolto tra le braccia di una meditazione che non ricopre più alcuna valenza educativa, ma semplicemente esplica un'esistenza imbrigliata nella rete del suo stesso cammino: «Si vive distratti | prigionieri del desiderio | di erigere mete | di danaro. || L'uomo non sa che farne | della fantasia | e l'umiltà è monile | da sfoggiare nelle riunioni | di salotto. || Ma la vita è | una manciata di minuti | dispersi dal soffio | dell'Eterno. ||»