Riflessioni su carpe diem quam

Alla ricerca del mio Orazio. Riflessione su alcuni pensieri direttivi della sua vita e, in particolare, sul “carpe diem, quam minimum credula postero”, n° XI del primo libro dei carmi e sul n° X del secondo libro.
             
Pur essendo buon conoscitore delle dottrine filosofiche del suo tempo (Platonismo, Aristotelismo, Stoicismo, Epicureismo, Eclettismo) e pur riconoscendo esplicitamente di avere poca attitudine all’indagine filosofica sistematica, il venosino Quinto Orazio Flacco ( 65 – 8 a.C.), il grande poeta classico di Roma antica, di fede epicurea come Lucrezio, amico fraterno di Virgilio e di Mecenate, molto stimato da Augusto, autore di quattro libri di Carmina: Odi, Epodi e Carme secolare, di due libri di Satire e due di Epistole,  non poteva non darci nei suoi versi immortali una sua personale visione dei principi che hanno animato la sua vita esteriore e il suo intimo convincimento sui più importanti problemi umani esistenziali del suo tempo. Questo è quanto di meglio possiamo avere per conoscere una persona che non c’è più.
La sua opera poetica ne è piena. Essi hanno animato nel corso dei secoli e continuano a influenzare i comportamenti di gran parte degli uomini. Qui raccolgo alcune espressioni, le più significative, tratte dalle sue Odi,  dagli Epodi, dal Carme secolare e dall’Arte poetica, che meglio aiutano a rendere più esplicito l’assunto che mi sono proposto, quello di cogliere il profilo più veritiero della sua personalità.
E’ risaputo che in poeti di così alta considerazione quei principi hanno una loro intima coerenza, cioè costituiscono una poetica, una weltanshauung, una concezione del mondo. L’insieme di essi si lega in una solida struttura logica che per mezzo della poesia riesce a penetrare in modo più vivo ed efficace nell’animo degli uomini e nel tessuto culturale e sociale delle genti. Ciò che occorre è un esame oculato e convincente di essi.
Al poeta sì, tutto è concesso, come ai pittori. La poesia è come un quadro, ha i suoi contenuti fatti di forme, di personaggi, di ambienti, di colori, di luci e di ombre.  (ut pictura poesis  361), ( Pictoribus atque poetis - quidlibet audendi semper fuit aequa potestas. 9\10). Così dice nell’Arte poetica. In esso ci è dato ravvisare tutto l’autore.  Ma un buon pittore dice Orazio, non può allontanarsi troppo dalla realtà e stravolgere le sue immagini, non si permette di assemblare parti di animali diversi per farne uno di sua invenzione. A tutto c’è un limite. Così il poeta. Occorre sempre una certa verosimiglianza nelle cose che dice. In medio stat res.
Inizio e fonte dello scrivere è la saggezza, “Scribendi recte sapere est et principium et fons (309),
Le persone assennate evitano un poeta insensato (455).
Il poeta mira a giovare e a dilettare, Aut prodesse volunt aut delectare poetae, (333). E deve stare attento a cosa dice e con quali parole lo dice, perché una volta uscita fuori la voce non torna indietro, nescit vox missa reverti (390).



La sua è una poesia piena di esempi viventi, spaccati di vita, raffronti di immagini, affermazioni positive e negative espresse  sull’arte del ben vivere e dello scrivere bene che ha ritenuto opportuno trasmetterci sotto profili diversi, favorevoli e sfavorevoli.
In essi c’è tutta la sua concezione della vita, la quale si specchia meglio in alcuni versi fondamentali di alcuni carmi. A tal proposito considero di primaria importanza   del primo libro, il carme n° XI, dedicato all’amica Leuconoe, da lui amata e molto stimata, e il n° X del secondo libro nel quale parla dell’aurea mediocritas.
Nel primo esorta l’amica a vivere con semplicità, senza troppe complicazioni, soprattutto senza porsi domande pretenziose e assurde, a cui nessuno è in grado di rispondere con la dovuta adeguatezza:
 
“Tu ne quesieris (scire nefas) quem mihi, quem tibi
finem di dederunt…”
(Tu, o Leuconoe, non chiederai – non è lecito saperlo – quale sorte gli dei concedano a te o a me…). Cioè non perdere il tuo tempo a riflettere su queste cose.
 “………Dum loquimur, fugerit invida Aetas:…”
(Mentre stiamo parlando fugge l’invido tempo:…)
“Carpe diem, quam minimum credula postero”.
(Afferra il tuo giorno, credi quanto meno possibile al futuro).
In breve. Non lasciare passare inutilmente questo giorno. Ogni momento della vita è importante. Non perdere tempo a pensare a ciò che nessuno potrà mai sapere. Il futuro, il destino degli uomini, è conosciuto solo dagli dei ed è sconveniente cercare di conoscerlo per ognuno di noi. Smettila di pensare ad esso. Piuttosto vivi intensamente il tuo giorno, afferra il tuo tempo, il tuo presente. Fai ciò che oggi devi o desideri fare. Non rimandare a domani ciò che puoi fare oggi.
Questo è il senso profondo di questi versi che, nel corso dei secoli, sono stati interpretati in maniera non del tutto consona, spesso addirittura in modo distorto, sconveniente  e riduttivo.
Mi riferisco ad esempio ad opere come il film americano, “L’attimo fuggente”, nel quale gli studenti vengono trascinati, da un insegnante infatuato di poesia oraziana, a comportarsi in modo del tutto insolito e stravagante che, a mio giudizio, non corrisponde alle intenzioni del poeta. Proprio quel comportamento assurdo mi ha indotto a riflettere su quanto sto per dire.
Non ritengo che col carpe diem il poeta abbia voluto invitarci ad afferrare qualunque cosa ci capiti nella vita quotidiana, a cogliere qualunque cosa si presenti e si offra davanti ai nostri occhi e ai nostri sensi o, ancor più, che sorga nella nostra mente per indurci a quietare gli appetiti dei nostri sensi.
Egli non ha voluto incoraggiarci a vivere una vita stravagante, insensata, magari solo volta ad afferrare il piacere, comunque inteso e persino fatto di turpitudini. La sua non è una filosofia della gioia dei sensi pura e semplice, fatta di leggerezze, adatta per persone incoscienti. Non è un modo di pensare comodo, da sfruttatori di qualunque genere e per qualunque occasione.
Dico questo perché, se tale andava inteso il suo messaggio, Orazio, di fronte alla grande occasione offertagli da Augusto di divenire suo segretario particolare, non si è comportato da profittatore. Egli, che era figlio di un liberto, che proveniva da un paese di provincia, da stirpe vissuta per un certo tempo in schiavitù, non l’avrebbe certamente rifiutata. Non capita a tutti una tale fortuna. Quale dei giovani d’oggi, di fronte a un’occasione simile, l’avrebbe rifiutata? Eppure egli la rifiutò
Questo è rivelatore del fatto che in lui non mancava il filtro della ragione, la capacità di pensare e di scegliere. L’arte poetica è rivelatrice dell’importanza delle regole che occorrono per ottenere il meglio sia nella vita che nell’arte di scrivere. E nessuno meglio di lui è giunto a questo.
Chi ha una mente sana, un profondo senso della dignità, un equilibrio interiore, un forte controllo di sé non può prendere decisioni leggere per fatti di tanta importanza che ti esaltano e ti cambiano la vita. Egli era il tipo che sapeva non fare il passo più lungo della gamba. Soprattutto amava la sua libertà e la vita semplice, fatta di piccole cose.
Illuminante a tale proposito è quanto egli stesso dice in altri testi, ad esempio, nel secondo libro dei carmi, al N° XVI, in cui ci parla di persone che godono di vivere una vita tranquilla, del modus vivendi di chi si accontenta di cose essenziali alla vita, le più semplici, di coloro che non hanno eccessivi grilli per la testa:
 
“Vivitur parvo bene cui paternum
Splendet in mensa tenui salinum
Nec levis somnostimorautcupido
Sordidusaufert.”…….
………………: nihilestabomni
Parte beatum.”
( Vive, di poco, e bene colui che sull’umile mensa si appaga della lucida saliera paterna, così che la paura e i sordidi desideri non gli strappino via i sonni leggeri…Nessuno mai è del tutto felice nella vita) né mai nessuno può ottenere tutto. E’ giocoforza accontentarsi prima o poi di ciò che si ha.
Più innanzi nel primo libro dei carmi al n° XXII) leggiamo:
“Integer vitae scelerisque purus
Non eget Mauris iaculis neque arcu
Nec venerat si gravida sagittis,
…, faretra”.
(Chi vive di pensieri ed atti casti non ha bisogno né di lanciare giavellotti, né d’arco o di faretra piena di dardi avvelenati…).
Tutto questo mi fa pensare a ciò che Vincenzo Cuoco fa dire da Ponzio sannita a Platone e ad Archita (Platone in Italia, Editore Cappelli, Bologna 1933, pag. 157) “Tranquillo è sempre l’animo di colui il quale fermamente crede di operar bene”.
Di se stesso, più oltre, ( carme n° XXXI ) dice di essere lieto di quel tanto che ha:
 
………me pascunt olivae,
me cichorea levesque malvae.
Frui paratis et valido mihi,
Latoe, dones et, nec turpem senectam
Degere nec cithara carentem
 (…Io mi nutro di olive, di cicoria, di malva e di cibi leggeri. Lascia che io goda di ciò che è valido per me, o figlio di Latona, Ti supplico, non lasciarmi avvizzire in una turpe vecchiezza, e non privarmi della mia cetra…).
Nell’epodo n° II:
   “ Beatus ille qui procul negotiis,
ut prisca gens mortalium
paterna rura bobus excertet suis
solutus omni faenore,
neque excitatur classico miles truci
neque horret iratum mare
forumque vitat et superba civium
potentiorum limina”
(Fortunato chi lontano dalle brighe, come l’antica progenie dei mortali, lavora il campo paterno con i suoi bovi, libero da ogni lucro; non lo desta, soldato, il suono truce della tromba, né lo spaventa l’ira del mare e schiva i tribunali e l’alte soglie dei grandi.)
Nel libro quarto dei carmi, al n° V
“…Culparimetuit fides,
nullispolluiturcastradomusstupris,
moset lexmaculosumedomuitnefas,
laudantur simili prole puerperae,
culpam poena permit comes.”
(La fede non teme l’accusa di colpa; la casa casta non viene profanata da alcuna violenza; il buon costume e la legge hanno domato le scellerate infamie; si lodano le donne che partoriscono figlioli con sembianze paterne e il castigo subito segue la colpa.)
E al carme n° IV
…”Fortes creantur fortibus et bonis:
…Doctrina sed vim promovet insitam
Rectique cultus pectora roborant;
Utrumque defecere mores,
Indecorant bene nata culpae.”
(…I forti nascono dai forti e dai buoni…l’educazione però eleva la forza ingenita e il costume buono irrobustisce lo spirito; dove l’uno e l’altro costume manca, le colpe guastano anche i ben nati.)
Al carme IX dice al suo amico Taliarco:
“Quid sit futurum cras fuge quaerere et
Quem Fors dierum cumque dabit, lucro
Adpone, nec dulcis amores
Sperne puer neque tu choreas,
Donec virenti canities abest
Morose…)
(Evita di chiedere quale sia il tuo domani e accetta in qualunque modo, ciò che la sorte ti darà come cosa guadagnata, e non disprezzare, o fanciullo, i dolci amori, le danze, il campo e la palestra finché la vecchiaia rimane lontana.) In breve, mantieniti giovane, attivo, efficiente, non avvizzire prima del tempo.
Altrove il poeta esorta il nocchiero alla prudenza. Gli consiglia al carme n° XIV: “Se non vuoi essere preda del vento, torna indietro.” Sii prudente.
“…Tu nisi ventis
Debes ludibrium, cave.”
 Il suo profondo umanesimo è tutto racchiuso nel carme n° III in cui afferma “Nulla è impossibile ai mortali”.
            “Nihil mortalibus ardui est.”
Perciò bada tu a quello che fai. Se fai bene sei tu a godertene, se sbagli sei tu a soffrirne.
                              *     *     *
E’ quanto basta per capire che il nostro poeta è mosso da  un forte equilibrio interiore che, seppur concede sfogo ai sensi, pone in somma considerazione il buon senso, la ragione.
Questo concetto, che nel “carpe diem quam minimum credula postero” appare adombrato, viene esplicitato al meglio nel carme n° X del secondo libro dove ci parla dell’“auream mediocritatem”  
E’ esso il concetto chiave che ci indica la via da tenere in tutte le situazioni possibili, quella consigliabile a chiunque, la via del giusto mezzo, quella che ci permette di evitare gli estremi più stridenti.
“Auream quisquis mediocritatem
Dirigi, tutus caret obsoleti
Sordibus tecti, caret invivenda
Sobrius aula”
(La via di mezzo è quella da seguire: chi l’ama sta lontano da uno squallido tugurio e dalla reggia che gli susciti contro l’invidia.)
Questo equilibrio Orazio ce l’ha nel sangue. Lo ritroviamo persino nel solenne Carmen saeculare, scritto in piena maturità, qualche anno dopo la morte di Virgilio, nel 17 a. C. , quando rivolge agli dei la sua invocazione per il popolo di Roma:
Di, probos mores docili iuventae,
Di, senectuti placidae quietem,
Romulae genti date remque prolemque
Et decus omne.
(O dei, date costumi onesti ai docili giovani, quiete alla placida vecchiezza, alle genti di Romolo date potenza, prole e ogni gloria.)
Il concetto di “carpe diem”, è interessante e lo ritengo pienamente valido, oggi come allora, ma, per essere bene inteso, ha bisogno di essere inquadrato nel contesto dell’auream mediocritatem. Esso allora ci fa capire che la vita va presa “cum grano salis”. E’ la ragione e il forte senso di equilibrio che deve dirci cosa bisogna afferrare (Carpere: cogliere, prendere ) nella vita. Allora quel carpe diventa dovere di afferrare il tempo (diem)” per riempirlo di migliori contenuti, per far sì che non scorra invano. Perché la vita è breve, come dice nel carme XIV del secondo libro:
Eheu fugaces, …
labuntur anni, nec pietas moram
rugis et instanti senectae
adferet idimitaeque morti.
(Ahimè fugaci,… scorrono gli anni, né la pietà dei numi accorda sosta alle rughe, alla vecchiezza che giunge indocile e alla morte.)
Il carpe diem non ci obbliga ad accettare tutto ciò che la vita ci dà, perché alla base di tutto l’agire umano c’è la moderazione, “L’aurea mediocritas”, il “buon senso”, la ragione, sia se viene intesa in modo cartesiano sia se si voglia seguire la maniera baconiana.
Il carpe diem c’induce a controllare minutamente il nostro tempo per viverlo al meglio, secondo i nostri desideri più giusti. Tutto il nostro vivere si costruisce nel presente, nell’oggi. L’autore ci invita a non rimandare a domani ciò che possiamo fare ora, perché, aggiunge poi, “quam minimum credula postero”, quanto meno dobbiamo credere al futuro, perché domani possiamo anche non esserci più.
                                *          *          *
Con questa espressione quindi Orazio ci invita a vivere responsabilmente, a tenere sotto controllo il tempo della nostra vita e la qualità delle nostre azioni. Risveglia le nostre coscienze, la nostra volontà, i nostri sentimenti, le nostre vicende particolari, le nostre azioni. C’invoglia a non lasciarci vivere solo portati dal vento che passa, spinti dalla sola forza dell’istinto o dalle tentazioni del tempo e della società. Ci esorta ad operare con impegno e con gioia in tutto ciò che siamo interessati a fare, tutto ciò che ci sta a cuore, senza eccessi e senza squilibri di sorta.
Ritengo che sia così perché, in quella che è stata la sua vita, Orazio ha dimostrato di essere fondamentalmente un uomo retto, equilibrato, avveduto. Era un pensatore serio, accorto, non un avventuriero senza scrupoli. Di temperamento posato e riflessivo diverso da quello passionale e impulsivo di Catullo.



Non sono d’accordo con chi quell’espressione (“carpe diem”) l’intende come dovere di “afferrare l’attimo fuggente” come invito a seguire ciecamente la volontà altrui o del caso. Nell’attimo, che geometricamente è come un punto, un punto ineffabile, privo di dimensioni, senza spazio e senza tempo, non si ha la possibilità di riflettere, di controllare i nostri impulsi, di prevedere la direzione del nostro operare.
Orazio non parla di attimo, ma di giorno, e il giorno è geometricamente un contenitore grande, una porzione importante del nostro tempo, un volume, fatto di molti piani, uno spazio grande o piccolo sempre racchiuso da tre dimensioni, fatto di migliaia di attimi. Esso è la metafora del tempo, dell’invida aetas, della durata della vita.
Non è, quindi, l’attimo, ma il tempo il significato della metafora diem, è cioè l’invida aetas. Il tempo relativamente sufficiente per prendere decisioni ponderate, per afferrare con equilibrio le cose di cui abbiamo bisogno nella vita. Tutto al più ritengo sia meglio tradurlo con la parola “occasione” e dire “afferra l’occasione fuggente”, cioè non perdere tempo, affrettati a decidere, altrimenti perdi una occasione che non ti ricapiterà più.
L’attimo è un punto iniziale del moto, non un itinerario e l’istinto è una forza primordiale, imponderabile come l’attimo, è espressione vuota, priva di contenuti, di per sé non ci consente di riflettere e programmare.
 Il modo distorto di intendere questo pensiero, a mio giudizio, esclude le migliori istanze oraziane perché secondo i suoi assertori esso ci inviterebbe ad afferrare anche le cose inutili, le esperienze negative, e a seguire vie oscure e tortuose, non illuminate dalla ragione.
 Chi agisce sotto la spinta dell’ ”attimo fuggente”, così inteso, non ha il tempo di pensare, di riflettere, di ponderare, di programmare. Non è capace di provvedere alle multiformi aspirazioni spirituali ed intellettive dell’uomo. Questo principio diventa restrittivo a confronto con le grandi possibilità della vita umana. E’ funzionale solo sul piano della spensieratezza, del vivere senza fini e senza ideali, del puro e più gretto materialismo ed egoismo, congeniale per coloro che intendono vivere di espedienti, di provocazioni, disposti a lanciarsi irresponsabilmente in avventure cieche, a seguire vie oscure e prive di uscite.
Solo un folle può intenderlo così.
Non si può, dunque, scambiare la filosofia oraziana per quella di chi ha la mente vuota. La follia, l’incoscienza assoluta, non appartiene al pensiero di Orazio.
 Quella sua frase tradotta in “afferra l’attimo fuggente” rivolta a fatti indiscriminati ha un’implicazione diversa da quella di “giorno fuggente”. Queste due forme di traduzione sono, a mio giudizio, due strade che somigliano, ma divergono.
Ripeto, “l’attimo” è solo un’entità astratta, una quantità di tempo effimera, inafferrabile. Esclude il concetto di durata e quindi esclude la visione di un percorso, la valutazione preventiva di un’esperienza, la presa di coscienza di un fenomeno, di una vicenda, la possibilità di monitorare il proprio spazio vitale. Non ci fa pensare a ciò che può avvenire dopo, al momento successivo. La sua spinta è irrazionale, rimane dominio dell’istinto.
Fa pensare all’immagine di una farfalla che, sotto la forza attrattiva della luce, vi si precipita contro senza sapere che in quel modo corre volontariamente verso la morte.
Questo modo di intendere è funzionale per chi sente in sé  un vuoto esistenziale che non sa come riempirlo, per un   uomo privo di prospettive, di progetti, di capacità di sognare. Induce più a soddisfare momenti di vuoto interiore, a saziare lo stato emotivo e sempre cangiante dei sensi. Esso illude le persone spensierate, volte a cogliere l’aspetto allegro e ridanciano della vita. Dico, scientemente, illude perché più spesso esso si ritorce contro le proprie aspettative.
  Chi non ha la bussola e il timone per navigare va dove lo porta il vento, per itinerari oscuri verso nidi insicuri.
Ciò rafforza la mia convinzione che Orazio invita ognuno ad essere sé stessi, coerenti e responsabili. In sostanza non si allontana molto dall’imperativo socratico “conosci te stesso”, perché solo così ognuno sa ciò che vuole e fin dove vuole arrivare. Solo così diventa nocchiero della sua nave.
Noi siamo esseri di ragione, questo è il nostro tratto fondamentale. E Orazio lo era in sommo grado. Sì, con la ragione possiamo anche sbagliare, ma senza di essa sbagliamo molto di più: non abbiamo nessun altro strumento che possa sostituirla.
Noi siamo sognatori, abbiamo fantasia, siamo artisti, costruttori del nostro mondo. Utilizziamo i nostri istinti come forza propulsiva, ma scegliamo i nostri itinerari. Perciò siamo noi gli artefici, i veri responsabili, del nostro futuro.
                               Filippo Leo D’Ugo

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