Saggio sulla poesia in lingua di Ugo DUgo
La poesia in lingua nazionale di Ugo D’Ugo
              
   In poesia Ugo D’Ugo, largamente noto e apprezzato nel Molise per i suoi versi in vernacolo, di cui ricordo le liriche “ Nustalgia de la Fota”, le satire “Le trascurzie di Maria La Rusciulella”, edite e rese pubbliche entrambe sin dal 1985, e le numerose altre liriche presentate e recitate in diverse occasioni anche a mezzo della stampa e della televisione locale, si è cimentato anche in lingua italiana con le liriche de “Il canto della ciavola”, (Enzo Nocera Editore, Campobasso 2008) corredate di una pregevole prefazione di uno squisito poeta, narratore e saggista molisano, Pasquale Di Petta.
Va detto, però, che la sua vena poetica in lingua italiana non si esaurisce solo nell’uso delle strutture poetiche moderne, in versi sonori e ritmati, di lunghezza variabile, sia pur sciolti e privi di rima, ma si espande in abbondanza anche nella sua produzione in prosa, in cui la sua partecipazione brilla di squarci altamente lirici là dove le vicende che narra sono più sentite per cui, per avere una visione più articolata di essa, occorre spingere lo sguardo sui due interessantissimi romanzi, “Il prezzo dell’amore” e “Il segreto di Sara”, e sui racconti più brevi in cui ci è dato cogliere non solo le numerose sfumature del suo modo di narrare, con essenzialità di linguaggio e forte aderenza ai fatti che narra, il suo piglio sarcastico e la sua piacevole ironia, ma anche le sue impennate liriche, fortemente illuminanti sul suo modo di intendere i rapporti che intercorrono tra il mondo e l’uomo.
Il testo di questa silloge, comunque, comprende 42 liriche, di pregevole fattura che, per alcune caratteristiche comuni, ma soprattutto per il tono generale del canto, per la specificità dei temi affrontati e per la loro struttura formale, ritengo divisibili in due parti.
La prima parte, che comprende le composizioni che portano alla luce i mali del mondo, è tutta incentrata sulla ricerca di un passato che non si ritrova più, il cui ricordo resta vivo solo nella memoria per le luci che ancora brillano di caldo affetto nel suo petto e per le ombre che lo fanno ancora profondamente soffrire.
C’è in questa parte del libro un senso diffuso di sofferenza per lo squallore che ravvisa: la visione di un mondo ancora amato ma fagocitato dal tempo che passa, perché “involve tutte cose oblio nella sua notte”, come dice Foscolo nei Sepolcri, un mondo pieno di lacerazioni che impressiona, così come può farlo a un reduce scampato all’eccidio che torna sul campo di battaglia che lo risparmiò, con le sue rovine, la sua desolazione, i suoi reperti. Ovunque vede assenze dolorose, tracce di esistenze che richiamano volti e dolcezze perdute, fantasmi, corpi disfatti: senti un alito di morte e una irresistibile voglia di pianto, appena mitigata da lievi sussurri d’amore.
Tali sono ad esempio Vo cercando, Paese mio, Novembre, Spine, Spezzoni di memorie. Tale è anche il canto in onore dell’eroe del “Sei Busi”.
Ad essi seguono i canti in cui il poeta lamenta le sciagure e la crisi del mondo di oggi (L’animo umano ha perso la chiave), per cui si rivolge indignato contro la droga (Ad un drogato, Non scorderò), contro l’esodo degli uomini in terra straniera (Sotto la pensilina della stazione), contro il trionfo dei falsi dei (L’angioletto senza piume).
Il tono di essi è tutto intero nel canto di apertura “Al di là”, nel quale il poeta si accorge dei limiti della mente umana perché essa non riesce a dare risposte esaurienti per far comprendere il perché del male nel mondo. E qui dichiara con altrettanta lucidità che è necessario navigare oltre l’orizzonte visivo, di interrogare l’anima il cui orizzonte si stende su tutto il mare della vita, quello razionale e quello irrazionale, quello reale e quello ideale.
Invano la mente
tenta d’infrangere
quel muro, donde
riverbera lo sguardo mio
al di là dello zigzagare
sulle cime innevate
dei monti.
Socchiudo gli occhi
e affido al periscopio
dell’anima mia
svelarmi il perché
di questo infinto
andare.
La stadia è
nell’onda del mare
che muove
le cose passate.
                    (Al di là)
Essa, a mio giudizio, richiama alla mente un pensiero di Hermann Hesse, Nobel del 1946, espresso nel lungo racconto “Bella è la gioventù” nel quale dice rivolgendosi al suo personaggio chiave: “Un giorno capirai che la ragione non arriva a tutto” e che “Anche la fede come l’amore non passa attraverso la ragione”. Su questo tema la sua poetica s’incontra felicemente anche con quella di Pasquale Di Petta.
Chiude questa prima parte la lirica che dà il titolo alla raccolta, “Il canto della ciavola”, che mette a nudo una verità antica quanto l’uomo, quella che scaturisce dalla lotta per la vita, dolorosa, ma reale, della storia che si ripete e cioè “ del topo finito in bocca alla biscia”, la legge dell’homo omini lupus, di hobbesiana memoria, quella  del più forte, e che rivela l’inadeguatezza delle regole della vita civile, perché genera falsi dei che allontanano l’uomo dagli ideali di giustizia e di pace.
Sono liriche queste che muovono l’animo a riflettere sui grandi temi dell’esistenza e che, grazie alla loro struttura costruita per contrasti, riesce, a partire dal dolore della vita, a farci comprendere il bisogno di una palingenesi e a ridarci la speranza di un ritorno a un rapporto di armonia tra l’uomo e la natura, tra l’uomo e l’uomo, tra i contrastanti aspetti della vita della città e della campagna.
Se l’uomo ha perduto la chiave della sua casa, del suo giusto porsi nel mondo dei viventi, occorre che la ritrovi al di là degli ostacoli che il corso della storia non manca di generare e, se si accorge che anche quella casa è in rovina, occorre tentare di rifondarla su basi più solide, su un nuovo umanesimo.
E’ ciò che cogliamo con piglio più disteso nella seconda parte di questi canti, più ricchi di colori e di suoni, più articolati nelle singole strutture, più pieni di suggestioni e di contenuti universali.
In essa ravvisiamo alcuni brani esemplari, in cui prevale l’armonia dei sentimenti e la genuinità della fede necessaria alla vita, temi espressi con mente più pacata e riflessiva e con un linguaggio più dolce e armonioso. Alcune di queste liriche sono veri e propri capolavori come Mattinata, Io ti ringrazio, Sopra Civita, Quando t’incontro, Sera d’ottobre, ma non meno significative delle altre sono Mattino, Son tornate le rondini, e canti di maggior impegno riflessivo come Assorto l’uomo, La vita è un soffio, Nel mio giardino.  



Ed è proprio Mattinata la lirica che meglio rappresenta i caratteri delle composizioni di questa seconda parte. Con essa il poeta esprime in modo organico uno dei temi ricorrenti della sua poetica: l’amore per il suo Molise. Non ci sono ombre in essa. Tutto è solare. In ogni parola brilla una luce che gli viene dal cuore. In essa il canto del poeta si espande in un’atmosfera di gioia e di sereno compiacimento. Il canto, pur non avendo una struttura uniforme, è disteso. I versi sono di lunghezza varia e privi di rima, ma non mancano di ritmo. Le parole sono essenziali, felicemente scelte, i costrutti e le immagini semplici e lapidari, ma il tono è tutto un canto d’amore per la natura, per le sue forme e i suoi colori. La gioia che la bellezza del suo paese gli desta, è pacata e distesa. Il grido di meraviglia che la conclude è quanto di più bello e più spontaneo poteva esprimere per la terra nativa.
La lirica Io ti ringrazio, è un altro dei canti in cui esprime in modo più sereno l’altro tema ricorrente del suo pensiero, quello religioso. Essa ci richiama alla mente il Cantico delle creature di San Francesco d’Assisi. E, non solo con esso riesce a incantarci per come coglie l’armonia del creato, ma riesce a sorprenderci con la presenza di un amore che ci proietta oltre le brutture del tempo, un amore in cui tace il dolore e persino la morte viene accolta come sorella. In essa sentiamo che l’animo del poeta è disteso, placato, pervaso da una serena e felice armonia.
Sopra Civita è la lirica in cui il poeta riesce a coniugare in serena armonia il canto della gioia con quello delle ombre della vita.
E qui passo a considerare l’aspetto più razionale del suo pensiero, quello intorno al quale l’uomo si volge da tempi immemorabili, la ricerca della verità e della felicità, oggetto di riflessione non solo dei poeti ma di tutti i filosofi di ieri e di oggi.
In Assorto l’uomo l’autore cerca di ritrovare quella chiave che l’uomo ha smarrito. E qui risuona con forza la solidità della sua fede. Così conclude questo canto dell’impegno umano sulla ricerca del vero:
Cerca…
Il Vero è lì, sotto il naso.
Eppure cerca…
Il certo? E’ lì, vicino,
come la bocca al naso.
Prova a toccare…
Ahi uomo!
Solo con la serenità
degli umili
troverai la strada
che va diritto al Vero.
 
Vuol dire, in fondo, che le verità sono elementari, alla portata di tutti, ma nessuno vuole riconoscerle. Nessuno vuole soffermarsi per riflettere e approfondirle ritenendole troppo semplici e inadeguate a soddisfare le multiformi esigenze degli uomini nei loro rapporti reciproci, con il mondo e con il suo Creatore. La presunzione delle persone più dotate e il loro orgoglio li spoglia dell’umiltà originale e li fa sembrare simili a Dio. Essi si costruiscono Falsi Dei e si allontanano dal vero umanesimo, dal considerare come centro di tutti i valori il Vero Dio, la sua Creatura prediletta e il Mondo come culla donata a tutti per essere felici.
Qui non intendo commentarle tutte queste magnifiche liriche, brevi, ma intensamente significative. Ma è altrettanto spontaneo chiedersi perché manca tanta umiltà negli uomini, e quindi, “perché tanto affanno nel mondo”, e perché solo per l’uomo è necessario “questo infinito andare?” dal momento che, come dice nella lirica La vita è un soffio,
“La vita è
una manciata di minuti
dispersi dal soffio
dell’Eterno”
La sua risposta viene dalla fede. Il Vero che addita è eterno e assoluto. E certamente ha un valore universale perché l’umiltà che l’incarna, porta all’amore del prossimo, alla solidarietà, alla giustizia e alla pace, al di là di tutti i sofismi possibili.
Ma anche il mondo della fede è in crisi per colpa dei Falsi Dei per cui non è facile rispondere a tutto questo. Complessa è la psiche dell’uomo per cui ad ogni domanda vengono fuori risposte che finiscono con puntini sospensivi. Ecco dunque perché la ricerca del vero e della felicità non ha confini, si estende nel mistero della creazione, nel suo spazio infinito, in un mondo dagli orizzonti che si perdono negli spazi posti oltre “lo zigzagare delle cime innevate dei monti”. Forse perché l’uomo non ama chiudersi in uno bozzolo come un baco per cui, appena può, rompe le catene della sua prigione, quella che lui stesso si costruisce, per riprendere il volo verso altri destini, verso altre esperienze. Dante lo dice, forse, anche in questo senso: “nati non foste a viver come bruti \ ma per seguir virtute e conoscenza”. E forse è proprio la conoscenza quella che ci trascina così lontano e ci chiude in labirinti senza uscita.
    


E qui passo a considerare la sua poesia in prosa nella quale egli manifesta in modo più disteso il suo sentimento d’amore e d’ammirazione per la bellezza che si manifesta nella natura e negli uomini.
Su questo tema, che abbraccia l’intero arco della sua visione poetica, mi limito a raccogliere, dai vari testi pubblicati, soltanto pochi brani esemplari, colti con molta parsimonia.
Nel romanzo “Il prezzo dell’amore”, il più ricco di abbandoni lirici, molti sono gli spunti di riflessione.
Essi vanno dall’armonia e dalla semplicità e la bellezza del paesaggio agreste come (pag. 13):
“Le traglie si inseguivano su per la Femmina Morta e di tanto in tanto giungevano le voci dei garzoni addetti al tiro delle bestie che incitavano codeste con secchi suoni gutturali a non abbassare il capo tra i ciuffi di erba che crescevano qua e là tra le stoppie. Anche le voci stonate delle mietitrici, da un campo lontano, si mescevano allo scampanellio delle mule e dei bovi da tiro ansimanti su per l’erta. Il paesaggio era diventato sotto il sole infocato una gran massa d’oro che riverberava di splendore fin dove l’occhio si perdeva nel bacio dei cupi monti appenninici col cielo di Puglia e le rare chiazze verdi di granturco sembravano pietre incastonate nell’oro delle stoppie. “
al sentimento dell’infinito come (a pag. 34):
“Di tanto in tanto si udiva l’abbaiare dei cani che lanciavano richiami nella notte in cui le piccole stelle non già segnavano la fine di un nuovo spazio, ma facevano intuire la continuità verso altezze indecifrabili;
dal risveglio mattutino di Sant’Elia (37), (a quell’ora in giro per il paese non c’è molto da vedere, ma il poeta, da mille indizi, sente la presenza di un mondo pieno di creature ansiose che si destano):
“Il paese appariva ancora sonnolento. Si udiva lo scalpitio delle bestie nelle stalle nell’udire il rumore delle prime macchine e le voci degli ambulanti. Si percepivano suoni lievi provenire dall’agglomerato di case, lievi battiti di zoccoli, brevi sferragliate delle bestie, cigolii di porte che s’aprivano al primo far del giorno, chicchirichì di galletti baldanzosi, il belare degli agnelli e l’eco prodotta dalla battuta degli scarponi chiodati sul selciato, una meravigliosa sinfonia che preludeva un più certo e immediato risveglio”.
alla bellezza della donna, sana e acerba. Dice (pag. 59) parlando del personaggio di nome Carmelina:
“Era bella, bionda dagli occhi neri. Le labbra umide sembravano petali di rosa che si schiudevano al bacio della primavera. I seni, né poveri né superflui, parevano due deliziosi frutti di spadone acerbo che erano lì lì per maturare, che a momenti avrebbero fatto la loro schioppata fuori dalla camicetta colorata. Le gote sembravano pallide pesche acerbe, vellutate, ma dure al tatto, come spaccarelle non ancora mature. “Muoio o son desto” avrebbe detto lo studentello di città! Ma Antonio rimase solo incantato”.
I brani poetici sparsi in questo libro sono tanti, basta cercarli.
 
Meno ricco di brani simili è il romanzo “Il segreto di Sara”, ma ciò che c’è non è meno poetico degli altri. Qui noto con quanta emozione l’autore ci parla del distacco di Sara dai suoi soccorritori al momento di partire per Roma (pag, 53),
“Portava forte nel cuore l’immagine di zio Angelo, di zia Carmelina, di Rosario, del paesaggio verde e fiorito, delle albe chiare e dei tramonti a tinte forti sui monti lontani; delle dolci note degli uccelli canterini e soavi come non aveva mai sentito; l’odore fresco delle nevi d’inverno, il profumo delle zeppole e dei calzoni che zia Carmelina friggeva a san Giuseppe, la fragranza dei frutti di bosco e le saporite frittate d’asparagi che a primavera non erano mai mancate, il profumo del pane benedetto, le voci indistinte delle masserie lontane, il muggito dei bovi, il raglio degli asini, il belare delle greggi, il canto dei galli, tutto questo patrimonio di affetto e folklore restava radicato, per sempre, nei cuori di Sara e di Samuele e mai in loro ne sarebbe svanito il ricordo”.
Nel racconto Zazà, magnifico è il ritratto di questa donna.
“Un bocciolo di rosa spuntava dalla sua boccuccia ad ogni sorriso. Portava in giro felice i suoi sedici anni giù per le strette viuzze che si diramano a valle della via Pennini e si lasciava seguire da frotte di ragazzi su per Santa Maria Maggiore, distribuendo, coi suoi tizzoni ardenti, promesse d’amore che poi finivano al voltare del primo portone”.
E, parlando di Lisa, nel racconto omonimo dice:
“I nostri occhi non potevano fare a meno d’incontrarsi, quasi s’incastonavano gli uni negli altri come due meravigliosi topazi che, se non fosse stato per il gentile saluto che rompeva l’idillio, sarebbero rimasti impigliati senza più distaccarsene”.
Mi fermo qui al solo fine di mostrare quanto sia spontaneo e naturale il suo modo di poetare.
                              *          *          *
La sua è una poetica tutta protesa a manifestare l’ammirazione che sente per la bellezza della natura e dell’uomo unita alle gioie che l’amore e il lavoro ci danno e a deprecare gli affanni generati dagli appetiti materiali sempre più estesi e sempre più irraggiungibili che hanno portato l’uomo alla rottura del suo equilibrio naturale e alla perdita della chiave della felicità.
E’ la crisi dell’uomo moderno, assetato sempre più di ricchezza e di novità, che si infischia del senso del limite, che gli sta a cuore. E’ il costatare che i tratti nativi della piccolezza umana, della sua umiltà e della necessaria solidarietà con il proprio simile, si sono sopiti e che al loro posto è sorta una catena ininterrotta di motivazioni contrastanti e quindi cagionevoli di dolori che, come in un labirinto senza uscita, rinchiudono l’intera società umana e avviluppano la mente di tutti e la portano a smarrire la strada della verità e della felicità. E’ questo   che lo turba.
Per questo l’uomo non sa guardare oltre l’orizzonte visivo, non sa affidarsi al periscopio dell’anima, perché la sua stessa coscienza si è deformata, per cui si perde in una ricerca senza fine in quanto le verità che riesce a raggiungere in un mondo afferrato dalle sue ansie, lo portano lontano dal suo vero umanesimo e lo lasciano continuamente inappagato, insoddisfatto.
 La poetica, quindi, è tutta incentrata sulla riflessione sull’uomo, sulla società e sul suo ambiente, tesa al recupero dei valori perduti, sostenuta dalla certezza della bellezza della vita e dell’armonia del creato. Questi sono i punti fermi.
Occorre perciò ritrovare la chiave perduta della casa dell’uomo, la sua giusta sede, la sua fede, il suo giusto rapporto con la natura e con l’uomo. Occorre rifondare il regno dell’uomo. Riappropriarsi delle forze che Dio e la natura ci hanno dato per vivere al meglio la nostra vita. Occorre più impegno, più solidarietà, più equilibrio tra gli uomini, più armonia tra natura e civiltà, più umiltà.
Attraverso la ricerca del passato e il confronto con il presente il poeta tratteggia le discrepanze che hanno prodotto l’ansia e le brutture della vita moderna.
La sua fede nasce dalla costatazione della bontà nativa degli uomini, dalla certezza della presenza dei suoi tratti distintivi come l’umiltà, la solidarietà, l’amore. Nasce dalla convinzione che quella bontà in ognuno di noi è semplicemente sopita e che occorre per tutti soltanto ridestarla, rimetterla in auge. Occorre rinsavire.
Egli, archeologo dell’animo umano, mette a nudo i mali del mondo per additare a tutti il bisogno di rifondare una casa in cui l’uomo possa vivere al meglio i suoi brevi anni di vita. E’ il sogno di tutti i poeti del mondo, lo stesso sogno di Dante che, pur di rinsavire, non esita neanche a percorrere gli itinerari delle sedi infernali.
E’ una poetica non dissimile da quella che cogliamo nella sua produzione narrativa. In fondo la famiglia Tracanna, Sara e suo figlio Daniele, Zazà, Gramegna, Lisa, il vate di Monacilione, sono tutti personaggi vivi, operosi, amanti della vita, che si affannano a vivere in solidarietà con il prossimo e in piena umiltà e che, là dove si avvedono di sbagliare strada, si affannano a ritrovare i sentieri perduti. Non sono che gli esempi di una umanità nata per essere felice non per soffrire o soccombere. E “Maria la Rusciulella” non è che la voce della sapienza popolare, ovvero, della coscienza.
Per questo egli si sente legato a ognuno dei suoi personaggi, anzi, è egli stesso un personaggio come loro che soffre e che prega perché l’uomo del nostro tempo ritrovi l’armonia e la pace perduta.
 La sua è, per dirla in breve, una poetica che pone al centro del suo sistema l’uomo semplice, buono, serio, operoso, virtuoso, generoso, solidale con gli altri, fiducioso, che sa contentarsi di ciò che ha, amante della concordia e della pace, in operosa armonia con se stesso, con il mondo e con Dio.
 

Filippo Leo D’Ugo

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