Regole dialettali
PREMESSA AI MIEI SCRITTI
RIFLESSIONI SUL DIALETTO DI CAMPOBASSO
Mi corre l’obbligo di dire due parole al fine di dare un valido aiuto a chi dovesse accingersi a leggere questo mio lavoro dialettale.
Premetto che scrivo il dialetto fin da bambino, come dimostra qualche poesiola datata 1949, che ho lasciato in U Lucignëlë 2012, per testimoniare alcuni valori che hanno fatto l’educazione della mia generazione ( rispetto per i poveri, per gli anziani, per le donne, per la religione, per lo Stato, per la natura) tanto per indicarne alcuni.
Io sono un tecnico e non un insegnante di lettere o di lingue, ma nonostante ciò, ho capito, fin da piccolo, che scrivere il dialetto significava riprodurre i suoni verbali sulla carta. Cresciuto, miei unici maestri sono stati Francesco D’Ovidio, Giuseppe Altobello, Nicolino Fiorella, che fu direttore del giornale dialettale “ U Mazzamaurielle “. E pare che abbia appreso bene la loro lezione. Devo dire pure che molto mi ha dato anche Turillo Tucci.
Da poco tempo sono apparse alcune grammatiche, tra le quali anche una sul dialetto di Campobasso, che ho apprezzato, pur non condividendo alcune considerazioni ivi contenute: a) l’origine del dialetto, che l’autore fa derivare dall’italiano, mentre per me il dialetto è una lingua romanza; b) l’uso della “j lunga “; c) l’articolo indeterminativo e, se posso aggiungere un quarto punto, l’aver trascurato di considerare che in alcune circostanze le parole cambiano desinenza, adattandosi alla parola che segue, come per conservare una certa declinazione originaria, che deriva loro dal tardo latino. Per questi argomenti ho polemizzato apertamente con costui.. Però, poiché ne ho l’occasione, devo precisare che, secondo me, il dialetto campobassano e, per esteso, quello di molti paesi della Provincia, ha i seguenti articoli indeterminativi: nu e na e non un, uno, una; poi ha i numeri une, ddù e tré… e non une e rrù, che non ho mai sentito pronunciare da alcuno, e tré; però è vero che ha ddurece o rurece, vintirù e non vintirrù e trentarrù, ( come si potrebbe intendere in quel testo ), e via discorrendo.
Bisogna tener presente che nu e na derivano dal latino unus, una,(unum) , che hanno perso dapprima la s finale e, successivamente, la iniziale u; infatti noi diciamo nu ciucce, nu cavalle, na crape, per indicare un asino, un cavallo, una capra. Quindi non occorre la paresi (‘) prima della enne come usa fare la maggioranza di coloro che scrivono il dialetto, poiché, come ho detto prima, la u iniziale l’ha persa già dal latino, da cui trae origine.
Se dico, ad esempio un uomo, in dialetto dirò nu ome e quindi n’óme, dove nu è articolo indeterminativo e quindi, poiché óme inizia con vocale, si elide la u e si mette l’apostrofo.
Altro motivo di divergenza, dicevo, è l’uso della J con funzione di consonante. A dire il vero l’autore mi rimproverava “ tu usi la gei “, già da questa affermazione si notava che lui non aveva considerato la “ j lunga “, che ha ben altro suono rispetto alla gei inglese, che ha il suono della nostra lettera g, un po’ più dolce come Jocher pronuncia giochèr, Jolly pronuncia giolli, e gli facevo notare che la “ j lunga “, intanto è usata nel dialetto perché esso è una lingua romanza, vale a dire derivata direttamente dal latino e quindi non dall’italiano, come qualcuno ha sostenuto pubblicamente. Per quanto riguarda la “j lunga”, come si chiama nel nostro alfabeto nazionale, rimando il lettore a consultare il vocabolario della lingua italiana Palazzi, che riporta, dopo la lettera I, la lettera J, con alcune sufficienti spiegazioni che vanno a vantaggio della mia tesi.
Per quanto riguarda l’uso della j lunga, faccio qualche altra considerazione:
il pronome personale io nel nostro dialetto è ije; se scrivo i soltanto, dico “ ì “ ( pronuncia secca!); se scrivo “ië” dovrei leggere “i(e) emettendo un suono unico, smorzato,essendo la (e) finale atona, come dicono nel basso Molise (senti Termoli, S. Martino in P., Larino); per dire io in campobassano noi diciamo ijë , cioè emettiamo due suoni distinti: prima la “i” poi la “jë”, dove la seconda (j) è in funzione di semiconsonante (o semivocale, come più vi pare).
Per esempio noi diciamo in lingua italiana “malattia”, emettendo i seguenti suoni: ma- la- ttia, ponendo l’accento un po’ più lungo sulla i e uniamo direttamente il suono della a, e non pronunciamo la sillaba ja; in dialetto noi diciamo “malatija”, se fate attenzione noi pronunciamo due volte il suono i, cioè emettiamo i seguenti suoni: ma-la ti-ja , pronunciando prima ti e poi la sillaba ja ( formata dalla consonante J e dalla vocale a; chiaro?
Ciò premesso e mi scuso ancora per la polemica, devo precisare che:
Le satire che seguono, nelle pagine appropriate di questo sito, sono state scritte tra la fine degli anni ’70 e la fine degli anni ’80 del secolo scorso e rappresentano una valida testimonianza del modo di vivere e di essere dei campobassani e non solo, visto che i problemi che mette in evidenza l’autore sono comuni a tutti i paesi, problemi che per molti versi a distanza di oltre trent’anni ancora persistono sul territorio ( Basti pensare che i maneggi che avvenivano nella Sanità, l’autore li metteva bene in evidenza un decennio prima che si scoprisse lo scandalo di cui fu messo sotto accusa il Dr. Poggiolini ). Infatti le satire furono già pubblicate nel 1985 in Nustalgija de la Fota.
Devo precisare pure che molti vocaboli risultano deturpati a proposito per dare maggiore effetto ai contenuti del discorso e per farne dell’ironia.
Per quanto riguarda i racconti essi sono stati scritti ugualmente in un ampio spazio di tempo, memore di contenuti e modo di esprimere dei cuntarielli che ci raccontava mamma per non farci bisticciare, costretti in casa dal lungo e freddo inverno campobassano, che una volta, forse anche per mancanza di mezzi e di strutture, sembrava essere molto meno sopportabile.
Continuando nell’esposizione della scrittura del dialetto, in particolare considero ancora che:
-Vocali e consonanti.
Le vocali, come nella lingua ufficiale, sono cinque: a, e, i, o, u.
Come nella lingua ufficiale esistono il dittongo e lo iato, anche nel dialetto l’associazione di più vocali formano tali strutture. Alcuni dialetti molisani, più raramente il campobassano, conservano anche trittonghi ( es. vuoàscë, bacio, senti capracottese ) e, in qualche caso, anche quadrittonghi.
Particolare da considerare è che la vocale e, a fine parola è atona, cioè non si pronuncia, e può esserlo anche all'interno della parola, a ben considerare, essa dà un suono morto, come per il francese.
Molti esperti di dialetto, nei loro scritti, usano rappresentarla con il simbolo ə (schwa)oppure con quest’altro ë.
(In alcuni dei miei scritti, prodotti prima di poter disporre del computer non avendo la disponibilità dei simboli di cui prima, il lettore dovrà tener presente che:
la e congiunzione ,quantunque non vi abbia posto accento alcuno, si legge come la e congiunzione dell’Italiano, per non far confondere, come facilmente potrebbe accadere, con la è voce del verbo essere).
Le vocali hanno possono avere le seguenti accentazioni:
la ë ovunque posta è atona, senza suono e dicasi lo stesso laddove avrei potuto indicarla con quest’altro simbolo “ə”;
la é ovunque posta si legge e con accento acuto, come mela, pera, cera;
la è con accento aperto, si legge come la “ è del verbo essere”, o di edera, di “ c’era una volta…”;
la o, si legge o con accento aperto, dolce, quantunque abbia indicato talvolta la ò accentata in alcune parole; ciò l’ho fatto solo per quelle parole che in altri dialetti, specie del nord, si usano pronunciare con suono acuto;
la ó con accento acuto, si pronuncia tutte le volte che la parola richiede un suono più acuto (stretto), come ad es. pollo, sole, giovane;
Riflettendo attentamente sulla composizione delle parole possiamo dire che la vocale atona posta all’interno della parola cade, salvo eccezioni, nel seguente modo: se bisillaba es. vasce o vascë ( bacio ) ), casce o cascë ( cacio ) ecc. cade alla fine; se trisillaba es.cenere o cenërë (cenere), casera o casëra (casa) cade sulla seconda; se quadrisillaba es. cumeretà (cumërëtà) o cummeretà (comodità) l’atona cade sulla seconda e sulla terza; se le sillabe sono cinque es. scarciofela o scarciofëla (carciofo) l’atona cade sulla terza,o oppure benedezzione (bënëdëzzionë) (benedizione ) in questa parola le atone sono la prima e la seconda, dando per scontata la finale. Ciò avviene in linea di massima, poiché le varianti sono tante, ad esempio: frettella, plurale frettelle, l’atona cade sulla prima sillaba, frëttellë e ciò è dovuto al rafforzamento della consonante tt.
Le consonanti sono le stesse della lingua ufficiale con l’aggiunta delle consonanti J e K, poiché, come già detto, contrariamente a quanto asserisce il Brunale nella grammatica a cui mi riferivo prima,che, peraltro, la J la indica tra le vocali, il dialetto è una lingua romanza, per cui deriva dal latino e non dall’italiano, che è parimenti lingua romanza, ma assunta per convenzione quale lingua ufficiale dello Stato.
Le consonanti quando devono esprimere un suono più duro, si raddoppiano ad es.:DD, NN, ecc.
Questo vale anche per il simbolo šš, ad esempio Campobasso, volendo scriverlo correttamente sarebbe da scrivere così: Campuaššë oppure Cambuaššë , pronuncia Campuassce oppure Cambuassce.
Nel dialetto campobassano, come avviene anche nel dialetto napoletano, la lettera B, in molti casi si trasforma in V ( Betacismo ), come appunto: vascë ( bacio ) al posto di basce; mentre la V si trasforma in B come ad esempio in valigia che in dialetto diventa bbaligia o baligia; ad es. Vincenzo diventa Bbecienze che potremmo scrivere così Bbëcienzë.
Lo stesso avviene per la lettera D, che diventa R (rotacismo), come avviene per ddu’ (due) che diviene ru’, per dentre (dentro) che diviene rentre. Devo dire pure che molti scrivono anche dendre o rendre, essendo indistinto il suono della consonante T, quando è preceduta dalla N, ma io non ritengo molto corretto, poiché il suono che viene emesso è più somigliante alla TH, proprio dell’articolo determinativo della lingua inglese the, che vien fuori pronunciando quell’articolo, facendo modo che nel pronunciare la T si schiacci la lingua contro i denti. Comunque ritengo pure che scrivere con la espressione dendre o rendre è un peccatuccio veniale.
Alcune parole hanno perso, con il passare degli anni, la consonante iniziale come ad esempio: ‘uante ( guanto ) o ‘uaglione per guaglione (ragazzo), comunque queste parole possono essere scritte anche con la iniziale g. Per quanto riguarda la g, in alcune parole è sostituita dalla j, ad es.pagare si dice pajà oppure cedendo completamente la consonante centrale paà. Devo dire però, che nella maggior parte dei paesi molisani si usa il termine pajà; altre l’hanno persa completamente come ad es. la legna che diventa lena; altre ancora, come ad esempio l’avverbio di tempo quando, che ha perso la d e ha raddoppiato la n, divenendo quanne.
Rispetto alle sillabe devo dire che i verbi perdono tutti l’ultima sillaba all’infinito, ad es. amà per amare, partì per partire, j’ o jie ossia jië per andare, ballà per ballare, venne ossia vennë per vendere; è pure da osservare che in alcune forme più ancestrali alcuni verbi, proprio come ad esempio vendere, fanno pure vennere ovvero vennërë, vevere o vevërë (bere).
Inoltre ho usato: la š per indicare il suono scë ,che ci caratterizza quando la esse è seguita dalla t, come in sto, che si legge scë-to, quindi dovendo leggere sto, pronunciamo questi suoni: scë e to , ritengo scorretto scrivere come fanno alcuni “scto”,poiché per leggere “sce” occorre la e atona.
Uso la kappa K solo per indicare la preposizione con, che regge il complemento di compagnia o quello di mezzo, per distinguerlo dalla chë congiunzione o pronome relativo.
Queste precisazioni ritengo che siano bastevoli per poter leggere correttamente il nostro dialetto anche dagli appassionati di scritti dialettali di altre regioni.
Qualcuno sostiene di scrivere normalmente senza accentazioni perché la scrittura è una cosa e la fonetica è altra; ma io ritengo che l’accentazione aiuta molto a leggere bene il dialetto, poiché anche nell’ambito dello stesso territorio, alcune parole variano solo per il suono di una vocale. Comunque, poi, ho notato che taluni maestri che sostengono quella tesi, nei loro scritti, si contraddicono e usano regolarmente le accentazioni e, spesso, anche in maniera errata.
- Articoli.
L’articolo determinativo maschile singolare è u, derivante dalle seguenti forme, che pure resistono in molte parti del Molise, lu o ru, fosse pure perché ancora usati talvolta in poesia; esempi: u cane, u ciucce, u cavalle, ru ‘mpezzature oppure ‘mbezzature, come dir si voglia oppure lu pane.
Devo far notare che la forma ru, ancora è presente nei dialetti dei paesi come Busso, Ferrazzano, Oratino; mentre la forma lu è molto presente nella zona di Lucito, Castelbottaccio, Lupara.
L’articolo determinativo femminile singolare è la, ad esempio: la crapa (la capra), la vacca (la mucca), la vrocca ( la forchetta ).
L’articolo determinativo plurale è le ossia lë, sia al maschile quanto al femminile, esempi: le ciucce (gli asini), le cane (i cani), le cacciunelle (le cagne), le femmene ( le femmine o le donne), le mele (le mele).
Devo far notare, poiché alcuni amici della provincia d’Isernia me lo hanno chiesto, che l’articolo determinativo dialettale che alcuni scrivono così ( gl’) e che pronunciano glië come il nostro aglië (aglio) è scritto erroneamente, poiché, così come lo hanno scritto si pronuncia con la g dura e quindi si leggerebbe ghlë, quindi va scritto così glië .
L’articolo indeterminativo maschile è nu, quello indeterminativo femminile è na. Essi derivano, come già detto, direttamente dal tardo latino, precisamente da unus, una, unum, avendo perso inizialmente la consonante finale ( come è avvenuto per nullium,che già nel XII secololo lo troviamo scritto nullu. Vedi primi scritti cassinesi e S. Francesco) e successivamente la vocale iniziale. Quindi noi se diciamo un cane, un asino, un cavallo, un uovo diremo nu cane, nu ciucce, nu cavalle, n’ove, sì perché sarebbe nu ove, quindi elidiamo la u e mettiamo l’apostrofo. È errato far precedere dal segno di paresi (‘n) la enne, poiché la u iniziale l’ha persa all’origine ed è errato scrivere n ove (senza l’apostrofo e maggiormente antecedendo l’apostrofo alla enne, come scrive l’autore di quella grammatica). Mentre al femminile se diciamo una mela, una rosa, una arancia diremo na mela, na rosa, n’arancia o n’arangia, in questo caso abbiamo eliso la vocale a di na e abbiamo messo l’apostrofo.
- Nome.
Nel dialetto molto spesso a distinguere il genere maschile o femminile è l’articolo che lo precede, poiché la maggioranza dei nomi finiscono tutti con la vocale atona.
I nomi che riguardano professioni o parentele li troviamo al femminile con la desinenza a; esempi: u zije (lo zio) e la zia (la zia), u cainate (il cognato) e la cainata (la cognata), u cuggine (il cugino) e la cuggina (la cugina), la quale in dialetto diventa pure sorëmacucina, ossia la mia sorella cugina; come u maestre (il maestro) e la maestra (la maestra), u sarte (il sarto)e la sarta (la sarta).
- Numeri.
I numeri cardinali sono: une (unë), ddu’ o rru’, tre (tre), quatte (quattë), cinche (cinchë), seie (seië), sette (settë), otte (ottë ) ecc.
I numeri ordinali sono: prime (primë), seconde (secondë), terze (terzë ), quarte (qurtë ), quinte (quintë ) ecc. e si fanno tutti precedere dall’articolo determinativo singolare u o plurale le, come ad esempio u prime, u seconde, u terze oppure le prime (i primi), le seconde (i secondi) le terze (i terzi); mentre al femminile sono: la prima, la seconda, la terza, ecc.; questi al plurale sono tali sia per il genere maschile sia per quello femminile.
- Preposizioni.
Le preposizioni possono essere semplici o articolate; spesso però possiamo avere divisa la preposizione semplice seguita dall’articolo.
Inizio per ordine alfabetico, al fine di non dimenticarne qualcuna.
La preposizione a che indica sia il complemento di termine che quello di moto in luogo, è simile a quella della lingua ufficiale; quella articolata diventa a u, a la; esempio: rà u libbre a Giuanne ( dai il libro a Giovanni ), rà la mana a Lucia ( dai la mano a Lucia). Devo far notare che alcuni vocaboli nella costruzione della frase accompagnano l’ultima vocale in assonanza con la successiva parola, come nel caso precedente in cui la parola dialettale (mane) diventa (mana) nella costruzione della proposizione. Questa è una caratteristica del nostro dialetto che le deriva dalle più antiche declinazioni latine. Esempio di complemento di moto in luogo: Vaglie a Milane (Vado a Milano), Vaglie a ru vosche ( Vado al bosco).
La preposizione semplice Kë per con regge il complemento di compagnia o di mezzo e che diventa K’u o Ku per con il , K’a o Ka per con la: esempi: Vaglië kë Giuànnë (Vado con Giovanni), So’ jutë k’u trenë ( Sono andato con il treno), So’ partitë kë la curriera (Sono partiti con la corriera).
La preposizione da o ra che indica complemento d’agente o di moto da luogo, articolata diventa da u, da la oppure ra u e ra la; esempi: è state fatte da Pasquale (è stato fatto da Pasquale), venghe da Milane (veng da Milano), è jute da la mamma (è andato dalla madre).
La preposizione de (dë) che forma il complemento di specificazione, articolato diventa de u anche d’u oppure du, de la, de le; sempi: u ciucce dë Manëcrettë (l’asino di Manigrette), la machëna dë Francischë (la macchina di Francesco), all’uorte de l’amice (all’orto degli amici).
La preposizione su diventa in dialetto ‘ncoppe o ‘ngoppe ( ngoppë ) (come dir si voglia) e viene dall’espressione in su o in sopra, esempio: vaglië ‘ncoppë, so jutë ‘ncoppë.
Giù si dice abbascë (al basso): So jutë abbascë (Sono andato giù).
La preposizione in articolata es. nel, nello, nella in dialetto viene sostituita pure da dentre a o rentre a , ad esempio: dentre a u trene (nel treno), dentre a le mutande (nelle mutande).
La preposizione pe ( pë )e pe la e pe u oppure p’u o pu che formano il complemento di mezzo e di moto per luogo, esempi: l’haje mannate pe Giuanne ( li ho mandati per Giovanni) , so passate pe Milane ( sono passato per Milano), Vaglie a Napule pe Beneviente (Vado a Napoli per (via) Benevento).
Le preposizioni tra e fra si usano come per la lingua ufficiale, esempi: tra moglie e marite ‘nce mette u dite (tra moglie e marito non metterci il dito), fra nu menute ve’ ‘Ntonie ( fra un minuto viene Antonio).
- Pronomi.
Personali: ije da (ijë) sta per io, tu sta per tu, isse (issë) sta per egli, nu’ da (nujë) sta per noi, vu da (vujë) sta per voi, lore sta per essi o loro.
Relativi: che ( chë) e chi , esempi: che scie’ cumbenate? ( che (cosa) hai fatto?), Chi t’ha maie penzate! (Chi ti ha mai pensato), ‘Uarde a Giuanne, che te’ vertù (guarda a Giovanni, che ha virtù).
Nel nostro dialetto manca un pronome possessivo vero e proprio, ma volendo si costruisce con l’espressione de le mie’, de le tuo’, de le suo’ ecc. (dei miei), (dei tuoi), (dei suoi); esempio: lassa sta a chessa ca è la me’ (da mea), Pienze a le cazze de le tuo’ (pensa ai fatti tuoi ).
Dimostrativi sono quiste, quille, chesta, chella e chessa che stanno rispettivamente per questo, quello, questa, quella e codesta, quest’ultima espressione molto spesso si indica con ‘ssa, es. ‘ssa cosa (codesta cosa); mentre questo si può anche dire con l’espressione ‘stu o ‘sta.
Gli stessi sono anche aggettivi dimostrativi.
- Aggettivo.
Gli aggettivi possono essere, come per la lingua ufficiale, di tante specie possessivo, qualificativo, dimostrativo ecc. non è scopo mio scendere nei dettagli, ma per quanto mi riguarda devo dire che l’aggettivo può essere maschile e femminile e anche nella forma maschile, la quale termina per lo più con la e atona, nella costruzione della frase può cambiare desinenza per accordarsi alla parola successiva, così come è stato detto per i sostantivi.
Inoltre devo dire che per fare il superlativo spesso ci serviamo dell’espressione assaie, es. per dire grandissimo diciamo assaie gruosse , per dire bellissima diciamo assaie bella; mentre per fare il comparativo usiamo come a oppure cchiù de, oppure uguale a oppure cumm’a esempi: è bella com’a na rosa, è cchiù brutte d’u riavule, scié uguale a nu scarafone; oppure si usa l’espressione simbre nu o simbre na oppure seguito anche da cchiù simbre/sembra cchiù nu/ na…. Che…., esempi: simbre cchiù nu ciucce che nu crestiane; oppure raddoppiamo l’aggettivo,esempi: cuncë cuncë per dire lentissimo; chianë chianë per dire pianissimo.
Quest’ultima caratteristica riguarda anche certi avverbi, ad esempio: lentamente diciamo ugualmente cuncë cuncë; interamente diciamo sanë sanë; meticolosamente diciamo pilë pilë;disteso diciamo luonghë luonghë; diritto diciamo tisë tisë; all’ultimo momento diciamo ‘gannë ‘ngannë; subito mo mo; di nascosto o furtivamente diciamo zittë zittë.
- Verbi.
Premetto che nel dialetto nostro non tutti i tempi dei verbi vengono usati e, in alcuni casi, di essi si usano altre forme per esprimere sia la prima persona che la seconda persona plurale. Altra considerazione da farsi è che i verbi ausiliari, in alcuni casi, sono usati al contrario dell’italiano, ciò costituiva una normalità fino a tutti gli anni ’50 del secolo scorso; oggi che la popolazione è più istruita l’uso degli ausiliari essere ed avere è più rispondente alla forma della lingua ufficiale.
Per esempio: Eravamo andati una volta veniva detto così: avame jute (avevamo andati), quindi usavamo l’ausiliare avere al posto dell’essere; oggi diciamo eravame jute, come pure diciamo ancora seme magnate (semë magnatë) per dire abbiamo mangiato e dato che il dialetto è lingua di popolo, perciò bella, dobbiamo dire che qualsiasi delle due forme usate, a mio avviso, sono corrette. La lingua naturale del popolo non si può imprigionare, relegandola in un ristretto luogo che si chiama grammatica. Perfino il grande D’Ovidio vi ha rinunciato! Il dialetto è libertà e lasciamo che il popolo almeno nel suo uso possa sentirsi libero!
Tornando a ragionare di verbi dico che gli ausiliari sono esse ( essë) per essere, avé (avé) per avere. Ma per molte espressioni ci serviamo pure dell’aiuto di altri verbi come: fa per fare, tené ( tëné) per tenere e al posto di avere per alcuni casi, puté per potere.
Per quanto riguarda i tempi devo dire che il passato remoto si usa poco, in sua vece si usa l’imperfetto, del congiuntivo; non esistono tutti i tempi; del futuro anteriore lo stesso; al posto di questi tempi si usano altre espressioni, composte con quei verbi che fanno da ausiliario.
Riporto qui di seguito alcuni dei tempi più usati degli ausiliari esse e avé :
Esse:infinito.
Presente indicativo: i’ so’, tu sié, isse/essa è o iè,nu’ semë, vu’ setë, lorë so’ ( sonnë).
Imperfetto: i’ evë,tu ivë, isse/essa eva, nu’ eravamë, vu’ eravatë, lorë evënë.
Trapassato: i’ evë statë, tu ivë statë, issë/essa eva statë, nu’ eravamë statë, lorë evënë statë.
Il congiuntivo non esiste e usiamo la forma:che(i’) pozza esse, che(tu) puozza esse, e via discorrendo.
Imperfetto congiuntivo: së i’ fusse, së tu fusse, së isse/essa fusse, së nu’ fusseme, së vu’ fusseve, së lore fussere.
Condizionale: i’ saria o sarria, tu sarisce o sarrisce, isse/essa saria o sarria, nu’ sarrisseme, vu’ sarrisseve, lore sarriane.
Avé: infnito.
Presente indicativo: i’ haje, nu’ aveme, vu avete, lore hanne. Da tenere presente che la seconda persona, la terza singolare non esistono, in loro vece viene usato il verbo tëné, quindi abbiamo tu tié,isse/essa tè.
Imperfetto: i’ aveve, tu avive o (tenive), isse/essa aveve o ( teneva), nu’ avame (poco usato), vu’ avavate (poco usato), lore avevene.
Passato: i’ avive, tu aviste, isse/essa avette, nu’ avemme, vu’ aveste, lore avenne.
Del verbo avere nel dialetto sono presenti anche le forme composte i’ avev’avute, tu avive avute ecc.
Imperfetto congiuntivo: së i’ avesse, së tu avisse, së isse/essa avesse, së nu’ avesseme, së vu’ avesseve, së lore avessene. Per il congiuntivo passato si usa la forma che pozza avé.
Condizionale: i’ avria, tu avriste, isse/essa avria, nu’ avriema, vu’ avrisseve, lore avrissena.Comunque è poco usato.
Queste poche nozioncine sono utili per scrivere il dialetto, per il resto ognuno faccia tesoro delle espressioni idiomatiche che provengono dall’umile mondo contadino e artigianale, che rappresenta quella parte della società il cui dialetto è meno inquinato.
Per quanto riguarda i verbi in generale, esistono tre coniugazioni: 1^, con desinenza –are; 2^, con desinenza –ere; 3^ con desinenza – ire.
Specchietto semplificativo del tempo presente:
1^ con. 2^ con. 3^ con.
infinito parlà (à) veré (è) sentì (ì)
ije o i’ parlë vérë sèntë
tu parlë virë siéntë
isse/essa parlë vérë sèntë
nu’ (nuje) parlamë vëdémë sëntimë
vu’ o (vuje) parlatë vëdetë sëntitë
lore parlënë védënë sèntënë
imperfetto (usato spesso anche per il tempo passato )
ije o i’ parlavë vëdivë sëntivë
tu parlastë vëdistë sëntistë
isse o essa parlattë vëdettë sëntettë
nu’ o nuje parlammë vëdemmë sëntemmë
vvu’ o vuje parlastë vëdestë sëntestë
lore parlannë vëdennë sëntennë
futuro ( non esiste, ma si esprime facendo precedere l’avverbio dumanë oppure l’espressione l’annë chë vé al tempo presente.
Passato prossimo:
ije (so o aglië) parlatë , (sso o aglië) vistë o vëdutë, (idem) sëntitë(eccez. sentute)
tu sié parlatë sié vistë o vedutë (idem) sëntitë(eccez. sentute)
isse/essa ha parlatë ha vistë o vedutë (idem) sëntitë(eccez. sentute)
nu’ o nuje avemmë parlatë avemmë vistë avemmë sëntitë
vu (non si usa)
lore avenne parlatë avennë vistë avennë sëntitë
Il condizionale non esiste e si esprime con l’imperfetto.
Gerundio
Parlannë vëdennë sëntennë
Alcuni verbi irregolari j’ (andare), sta (stare), fa (fare), dà (dare), puté (potere) cambiano forma in alcuni tempi e in alcune persone, come ad esempio in questo specchietto:
pron. J’ sta fa dà puté
Ije Vaglië stenghë faccë denghë pozzë
tu Va sta fa dà po’
nu’ jamë stemë facemë démë putémë
vu’ jatë stétë facetë détë putétë
part.pass. jutë statë fattë datë pututë